UMBERTO SABA
(1883 - 1957)
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QUANTE ROSE A NASCONDERE UN ABISSO
di Rita Turrini
L’infanzia difficile di Umberto Saba, le conseguenze nella vita e la sua rielaborazione poetica.
Il verso che dà il titolo a
questo saggio è l’ultimo di un breve componimento di soli tre versi, inserito
con il titolo di Secondo congedo, nella raccolta del 1928-29 Preludio e Fughe,
che recita: O mio cuore dal nascere in due scisso,/quante pene durai per uno
farne!/Quante rose a nascondere un abisso!
Saba ci dice dunque di una lacerazione originaria, che precede la sua stessa
nascita e che lo farà vivere a lungo “scisso”, diviso cioè fra le due componenti
della sua identità primigenia, risalenti rispettivamente alla madre, severamente
presente, e al padre, da sempre, irresponsabilmente assente.
E’ lo stesso Saba a offrire continui riferimenti alla sua vicenda biografica
dedicando, ad esempio, una parte fondamentale del suo Canzoniere, l’
Autobiografia , alle situazioni più significative della sua
infanzia e adolescenza, fornendoci per di più una ulteriore serie di
chiarimenti e di informazioni, anche di tipo aneddotico, sui fatti che hanno
ispirato le poesie di cui ci propone anche la giusta chiave di lettura e
dandoci, spesso in contrasto con i suoi critici, quella che potremmo definire
l’interpretazione autentica del legame fra la sua poesia e la sua vita. Dunque
Saba non è reticente, ma il linguaggio del poeta, anche quando sceglie le forme
della prosa per esprimersi, pur essendo sempre suggestivo, non sempre è chiaro
per chi non conosca i casi della sua vita.
Vediamo dunque di gettare un po’ di luce su questi fatti iniziali che riguardano
vicende che addirittura precedono la sua nascita ma tali da condizionare poi la
sua successiva esistenza e, per farlo, affidiamoci allo stesso Saba che, nato a
Trieste nel 1883 dall’unione fra il padre cristiano, Ugo Edoardo Poli, e
l’ebrea Felicita Rachele Coen, così rievoca in una lettera a Nora Baldi del
1955, quell’infausta decisione: “Esisteva, nel 1882 un uomo che vendeva mobili a
schede (a rate). Era vedovo, con una bambina, figlio di un pittore che faceva
quadretti di genere (credo di frutta, per appenderli nelle camere da pranzo
d’allora) e di una Arrivabene. Quando aveva circa quarant’anni, un sensale di
matrimoni (si chiamava Tomba), gli propose mia madre, che non era molto più
giovane di lui. Fu accettato. Per 4000 fiorini lo sciagurato si fece
circoncidere, cambiò il suo nome in quello di Abramo, e (puoi immaginarti con
quale nascosto rancore) sposò mia madre, che teneva allora un negozietto di
mobili. Il primo litigio scoppiò per l’abito di nozze che costava 13 soldi al
metro. Il disgraziato supplicò invano mia madre, di comperarne un altro per via
del numero che portava scalogna. (Mia madre non era ignobile; ma non sapeva
vivere, né lasciar vivere gli altri) […] Il giorno della mia nascita (un
venerdì, 9 marzo del 1883; vedi come tutto ha qualcosa di fatale) egli era in
prigione per lesa maestà (F.Giuseppe): credo piuttosto per scappare da mia
madre: tanto più che i soldi erano finiti, e i parenti non volevano tirarne
fuori degli altri. Quando si accingevano a coprirmi, mia madre si oppose,
dicendo che se vivevo vivevo, e se morivo morivo…”.
Quello fra il padre e la madre non fu dunque un matrimonio felice, anzi non fu
neppure un matrimonio, per così dire, o meglio da esso non ebbe origine una
famiglia, poiché il padre, irrequieto ed errabondo, abbandonò definitivamente la
moglie ancora prima della nascita del figlio. Rachele, sola, con l’aiuto dei
suoi parenti e in particolare di una zia generosa, si fece carico della crescita
e dell’educazione di Umberto. Sentendo doppiamente la responsabilità che aveva
nei suoi confronti lo crebbe in clima di austera severità, incapace di esprimere
il suo affetto, che pure era profondo e sincero, libero dalla sofferenza e dal
risentimento per l’abbandono del marito. Il piccolo Umberto è destinato a
diventare così, inconsapevolmente, il capro espiatorio di una situazione di
dolore di cui è la causa e di cui è chiamato nello stesso tempo ad essere il
risarcimento. Il figlio dovrebbe infatti compensare la madre con il suo
comportamento affettuoso e con la sua condotta perbene della perdita dell’amore
e della presenza del marito. Ma un nuovo tradimento è in agguato per la donna,
infatti il piccolo Berto, come il poeta si definisce nella raccolta
omonima, messo a balia da una contadina slovena, Peppa Sabbaz, trovando nella
nuova famiglia, dove è pure presente una sorta di padre buono nella persona del
marito della balia, un clima sereno e caldo di affetti, mostra di preferire la
tenerezza della nutrice, che riversava su di lui l’amore per un figlioletto
precocemente perduto, all’austerità della madre che, temendo in questo modo di
perdere anche lui, prima contrasta da lontano questa inclinazione poi,
sentendosi sconfitta, si risolve a strapparlo definitivamente alla casa della
balia, provocando così il primo irreversibile trauma in un bambino “conteso fra
due madri”, come dice Muscetta, “ senza il correttivo del padre, di cui sentì
acutissima la mancanza”. Questa la premessa, in forma di dramma reale del
futuro dramma poetico di Saba.
Non inganni, nella rievocazione del contratto matrimoniale che abbiamo più sopra
riportato, il fatto che Saba descriva il padre più come una vittima che come un
vero e proprio colpevole e che le valutazioni più dure siano invece riservate
alla madre. Queste riflessioni datano infatti ad un’epoca in cui, il poeta, già
molto vecchio e non troppo lontano dalla sua morte, riversa in esse non solo i
benefici, in termini di conoscenza e comprensione di una ormai lontana cura
psicanalitica, ma anche, e forse soprattutto, il filtro di una esperienza assai
ricca e sofferta dal punto di vista umano che lo ha portato ad aprirsi, anche
compassionevolmente, agli altri e alle ragioni che stanno dietro alle scelte di
vita personali. In realtà Saba visse allora la sua infanzia come un periodo
angoscioso e lacerante in cui si inserisce anche il contrasto, destinato
anch’esso ad avere ripercussioni personali e rielaborazione letteraria, fra due
religioni, quella cattolica, del padre e della balia e quella ebraica della
madre, che lo segnerà profondamente anche se, personalmente, resterà sempre
laico e ostile a qualunque forma di religione costrittiva, sia essa quella dei
preti o dei rabbini. La tragedia del popolo ebraico provocata dalla persecuzione
antisemita nazista e fascista, vissuta anche da Saba in prima persona lo
porterà suo malgrado a fare i conti con quelle lontane radici religiose che
continueranno ad essere per lui, come vedremo, un nodo problematico irrisolto.
Anche la intensa relazione con la moglie Lina, da lui conosciuta nella forma
strana che vedremo, non sfugge a queste premesse anzi trova in esse la sua
ragion d’essere originaria e riproporrà, in misura significativa, il quadro
problematico che abbiamo tracciato.
Ecco indicati i tre principali nuclei tematici che cercherò di sviluppare in
questa sede, a cui un altro potrebbe essere aggiunto, che cito per indicarne la
consapevolezza anche se non intendo ora svilupparlo: la problematica e
controversa omosessualità di Saba riconducibile a quelle stesse premesse
familiari e infantili, di cui tante tracce, anche evidenti, sono sparse nelle
poesie del Canzoniere e che infine diventa vero e proprio tema narrativo
in quel prezioso romanzo incompiuto e postumo che è Ernesto. In ogni
caso è evidente che ci stiamo addentrando in un terreno fertile per l’indagine
psicoanalitica che pone non pochi problemi non solo a chi non sia esperto di
questa scienza ma anche a chi, accostandosi per questa via, all’opera di un
artista, avverte il rischio di ridurre l’interpretazione della sua opera a
categorie lontane da quelle letterarie. Con Saba, tuttavia, questo è un rischio
che dobbiamo correre, anche perché è lo stesso poeta per primo a praticare
questa strada e a farsi analista di se stesso, dopo avere affrontato un breve
ciclo di terapia psicoanalitica con il dottor Weiss. Questo rapporto
terapeutico ebbe inizio nei primi mesi del 1929, quando Saba aveva già 46 anni
(troppo tardi per avere effettiva efficacia rispetto ad un limite che lui stesso
indica a 40 anni) e si protrasse fino all’estate del 1931, quando si interruppe
in modo non volontario e senza potersi dire utilmente concluso, per il
trasferimento del dottor Weiss da Trieste a Roma.
E’ lo stesso Saba a darne notizia, in modo confidenziale, non volendo che sia
risaputa, a Giacomo Debenedetti, in una lettera del 13 settembre 1929, in cui
dice di avere accettato di sottoporsi, sia pure riluttante, ad un trattamento
con il dottor Weiss, in concomitanza con una crisi nervosa più grave delle altre
che già in precedenza lo avevano assalito, che lo aveva portato anche, non solo
a meditare, ma addirittura a preparare il suicidio. In questa lettera, dopo aver
detto “sto meglio, e meglio in una maniera nuova; che cioè non ha niente a che
fare coi miei miglioramenti d’altre volte: qualchecosa nell’animo mio è mutato,
e mutato per sempre”, arriva al cuore del problema che, per la prima volta
enuncia in termini così chiari: “Devi sapere che alla radice della mia malattia
stava la mancanza del padre: ma come, in qual senso e con quali conseguenze è
cosa incredibile e vera”. Questa lettera, unica fra quelle indirizzate ad amici
e familiari pubblicate con il titolo La spada d’amore, è
significativamente, per le ragioni che vedremo, firmata con il nome di Berto In
un’altra lettera a Vittorio Sereni del 1952, che riprende quasi gli stessi
argomenti già esposti anche nell'interessante carteggio tenuto con lo
psicoanalista Joachim Flescher tra il 1946 e il 1949, Saba, rievocando, a
distanza di molto tempo, la sua esperienza con Weiss così si esprime: “ In
realtà, più che guarire, personalmente, ho capito molte cose dell’anima
umana, che prima mi erano non solo oscure, ma addirittura insospettate. La cosa
peggiore della mia infanzia fu l’assenza di un padre (buono o cattivo) e il
dott. Weiss supplì, fino a un certo punto, a questa mancanza. Comunque, quando
partì stavo molto meglio, ed egli potè dire a mia moglie: Suo marito non è
guarito ma molto migliorato…”
Siamo dunque al nodo centrale del nostro tema, il rapporto, o meglio, il
mancato rapporto con il padre, di cui il poeta era già dolorosamente consapevole
sul piano emotivo ma che riuscirà a comprendere meglio e a razionalizzare solo
dopo l’intervento di analisi.
Della sua infanzia difficile abbiamo due diverse testimonianze in due separate
raccolte poetiche. La prima è la già citata Autobiografia, del 1924,
prima della cura con Weiss, l’altra è Il piccolo Berto del 1929-31,
contemporanea cioè al trattamento psicoanalitico. Entrambe affrontano questo
aspetto ma lo presentano sotto una luce diversa.
Dalla prima sono tratti questi due sonetti:
Quando nacqui mia madre ne piangeva,/sola, la notte, nel deserto letto./Per me,
per lei che il dolore struggeva,/trafficavano i suoi cari nel ghetto./Da sé il
più vecchio le spese faceva,/per risparmio, e più forse per diletto./Con due
fiorini un cappone metteva/Nel suo grande turchino fazzoletto./Come bella doveva
essere allora/La mia città: tutta un mercato aperto!/Di molto verde, uscendo con
mia madre,/io, come in sogno, mi ricordo ancora./Ma di malinconia fui tosto
esperto;/unico figlio che ha lontano il padre.
La figura del padre torna, da assoluta protagonista, in quest’altro:
Mio padre è stato per me L’assassino,/fino ai vent’anni che l’ho
conosciuto./Allora ho visto ch’egli era un bambino,/e che il dono ch’io ho da
lui l’ho avuto./Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,/un sorriso, in miseria,
dolce e astuto./Andò sempre pel mondo pellegrino;/più d’una donna l’ha amato e
pasciuto./Egli era gaio e leggero; mia madre tutti sentiva della vita i pesi./Di
mano ei gli sfuggì come un pallone./<< Non somigliare- ammoniva- a tuo
padre>>./Ed io più tardi in me stesso lo intesi:/Eran due razze in antica
tenzone.
L’ultimo verso di questo sonetto, anticipa in modo ancora più crudo, il “ cuore
in due scisso” che abbiamo citato all’inizio, con una significativa differenza.
Nel primo, la contrapposizione fra le due razze, a cui non è.estranea anche la
differenza religiosa fra i due genitori, è, per così dire, un dato di fatto
assunto oggettivamente, come la constatazione di due stili di vita e di due modi
di intenderla fra di loro inconciliabili, di cui lo stesso poeta trova
dolorosamente traccia anche in sé, come segno di una doppia, inevitabile
eredità. Nel secondo il dato oggettivo si è trasformato in sentimento, non più
“due razze”, ma un unico “cuore”, sia pure lacerato e alla ricerca di una
difficile sintesi che porterà il poeta non solo a constatare ma anche a
comprendere le ragioni di quella differenza.
Saba è stato il più acuto interprete di se stesso e della sua poesia in quell’opera
straordinaria e originale che è la Storia e cronistoria del Canzoniere,
composta fra il il 1944 e il 1947, in cui ci fornisce puntuali esegesi di tipo
stilistico, unitamente a chiarimenti di carattere biografico e psicologico. Ma
per quanto riguarda i sonetti dell’Autobiografia è piuttosto sbrigativo
e, riferendosi in particolare al secondo sonetto citato, si limita ad un’analisi
di tipo stilistico, soffermandosi sui difetti che lui stesso evidenzia, come
l’immagine del “pallone” che avverte pesante in contrasto con la leggerezza che
avrebbe voluto suggerire. A proposito del contenuto afferma soltanto che “ chi
non avverte fino a che punto questo sonetto è ad un tempo universale e
individuale, la sua appartenenza cioè alla grande poesia, è sordo ai valori
poetici più essenziali, e nessun ragionamento, nostro o d’altri potrebbe
persuaderlo”. Non si sofferma dunque ad approfondire il rapporto
figlio-genitore, che pure è presentato in termini così crudi, come se, in questa
fase della sua esistenza la sua angoscia potesse risolversi ancora solo per
immagini, non avendo ancora acquisito la capacità, che più tardi verrà, di
analizzarla e comprenderla in se stesso. Diverso è il tono delle poesie del
Piccolo Berto, in cui il poeta appare quasi riconciliato con le sue origini,
in seguito alla comprensione delle ragioni che determinarono un tempo il
comportamento irresponsabile del padre e quello troppo austero della madre.
Questo non annulla la gravità dell’angoscia che questi fatti determinarono in
lui e non ne allevia il dolore, tuttavia il poeta è ora in grado di leggere
meglio anche nell’ animo del padre e della madre e di dare un senso ad episodi e
situazioni che segnarono fin dall’infanzia la sua esacerbata sensibilità.
In un articolo pubblicato sulla Fiera letteraria nel 1946, dal titolo
Poesia, filosofia e psicanalisi, in cui polemizza con Benedetto Croce per le
sue posizioni ostili a quello che, riduttivamente, il filosofo definisce “freudismo”,
considerando le teorie del medico viennese alla stregua di un rozzo psicologismo
di matrice pansessuale, estraneo a qualunque rapporto con la poesia, Saba, dopo
aver difeso con competenza da conoscitore, anche sul piano teorico, i meriti
della psicanalisi che considera la sola vera grande scienza contemporanea,
ponendo Freud fra i grandi della civiltà moderna, insieme a Copernico e Darwin
e, sul piano filosofico, a Nietzche, passa a considerare, alla luce soprattutto
della sua esperienza personale, il rapporto fra poesia e psicanalisi e,
rifacendosi alle affermazioni di Croce sostiene: “Una persona che, attraverso
un’esperienza psicanalitica condotta fino in fondo e completamente riuscita,
avesse superati in se stessa tutti i propri <<complessi>> e, con quelli, la
propria infanzia, non scriverebbe più poesie, nemmeno se avesse sortito dalla
natura il genio poetico di Dante; tanto più se ne allontanerebbe quanto più
l’inconscio che l’alimenta fosse diventato in lei conscio. Quell’ipotetica
persona non perderebbe, per l’analisi, la facoltà di esprimersi (che si ha o non
si ha): ma sentirebbe il bisogno di esprimere altro e in altra forma. Perché
questo? Perché la poesia, come tutte le arti, è impensabile senza che ci sia, in
chi la esercita, una forte, un’ eccessivamente forte carica di narcisismo,
carica che l’analisi tende, per quanto possibile, a diminuire, deviandola dal
soggetto all’oggetto (…) Un estremo di narcisismo ed una, anche relativa, salute
psichica non possono coesistere. <<Non credo- diceva Freud ad un suo collega che
lo consultava a proposito di un suo cliente- che era appunto un poeta- <<non
credo che il suo paziente potrà mai guarire del tutto. Al più uscirà dalla cura
molto più illuminato su se stesso e gli altri. Ma se è un vero poeta, la poesia
rappresenta per lui un compenso troppo forte alla nevrosi, perché possa
interamente rinunciare ai benefici della malattia>>. La prognosi si rivelò poi
vera alla lettera; quel poeta non guarì del tutto, ma le poesie che scrisse dopo
l’analisi furono più liete e serene delle precedenti. Ecco un esempio di come la
psicanalisi possa influire anche sulla poesia, o, meglio, sui poeti”.
Questi sono i vantaggi che lo stesso Saba trae dalla psicanalisi, il primo tra i
quali è il riconoscimento e la riconciliazione con la sua infanzia, con quel
bambino che convive nell’adulto e rappresenta l’occhio giusto con cui il poeta
deve guardare al mondo, recuperandone l’innocenza non priva, però, anche di quel
fare dispettoso, irrispettosamente curioso e demistificante che fa dei suoi
giovani piuttosto dei ragazzacci, come appunto il “ragazzaccio aspro e vorace” a
cui, per similitudine è accostata l’amata Trieste che con essi condivide una
“scontrosa grazia”.
Non a caso (del resto è lo stesso Saba ad avvertirci in una sua Scorciatoia
che “non esiste il caso: non esiste la famosa tegola sul capo. Esistono
nessi- ed autodecisioni- che noi non sappiamo”) il ciclo del Piccolo Berto
si apre con una poesia in cui il recupero della sua ormai lontana infanzia
prende avvio dall’immagine di sua figlia, l’amata Linuccia, che, facendogli
vivere le consolazioni della paternità condivisa , gli ripropone, ma ormai
addolcito, il rimpianto del bambino che fu, con le sue gioie e i suoi dolori,
compreso il primo e più importante: l’assenza del padre.
Mia figlia/mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;/ed io alla sua carezza
m’addormento.[...]/Al seno/approdo di colei che Berto ancora/mi chiama, al
primo, all’amoroso seno,/ai verdi paradisi dell’infanzia.
La prima strofa propone un’immagine rovesciata rispetto alla tradizionale
consuetudine familiare: è la figlia che culla il padre in una sorta di
inconsapevole ninna.nanna carezzevole che lo induce al sonno e al sogno lieto.
La figlia compie nei confronti del padre quell’ufficio che il vero padre di lui
non compì mai, opera pertanto anch’essa una sorta di risarcimento nei confronti
del padre, non troppo dissimile nelle motivazioni, anche se più dolce nei
fatti, di quello che un tempo il giovane Saba fu chiamato a compiere nei
confronti della madre abbandonata, una madre il cui posto, però, nel cuore del
bambino era stato preso dalla nutrice. Questa è la prima delle tre poesie che a
lei sono dedicate con il titolo appunto di Tre poesie alla mia balia.
Nella balia, nel suo calore corporeo, nella sua funzione di nutrice che dona il
latte della vita e, più tardi ancora, un simbolico caffelatte che segna
l’approdo all’età adulta, si incarna per il poeta la vera maternità e questo
determina in lui un’altra lacerante scissione, quella fra l’ amore per la madre
affettiva, che definisce “madre di gioia” e quello per la madre biologica, la
severa Rachele Coen, maestra di dolori e di timori. Quest’ultima che non avrebbe
potuto sopportare un nuovo abbandono lo sottrasse, a tre anni, incurante del
suo dolore, alla Peppa. Saba rievoca poeticamente quello straziante momento
così:
...Un grido/s’alza di bimbo sulle scale. E piange/anche la donna che va via. Si
frange/ per sempre un cuore in quel momento./Adesso/Sono passati quarant’anni./Il
bimbo È un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto/Di molti beni e molti mali. E’
Umberto/ Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca,/a conversare colla sua
nutrice;/che anch’ella fu di lasciarlo infelice,/non volontaria lo lasciava. Il
mondo/fu a lui sospetto d’allora, fu sempre/(o tale almeno gli parve)
nemico./Appeso al muro è un orologio antico/ così che manda un suono quasi
morto./Lo regolava nel tempo felice/il dolce balio; è un caro a lui
conforto/regolarlo in suo luogo. Anche gli piace/a sera accendere il lume,
restare/da lei gli piace, fin ch’ella gli dice:/<<E’ tardi. Torna da tua moglie,
Berto>>.
Come si vede, l’assenza del padre ha provocato anche un ulteriore conflitto di
cui Saba porterà il peso, oltre a quello dell’odio della madre nei confronti
dell “assassino” lontano: un conflitto tra donne. Al primo, quello fra la madre
e la balia, il farsi uomo del poeta ne aggiungerà un altro, anche se di natura
solo psicologica, quello fra la madre e la moglie, introdotta, benchè assente
dal quadro rievocato, dalle parole della Peppa, nell’ultimo verso dove compare,
anche lei in alternativa, anche se non in contrapposizione drammatica, con la
nutrice.
Ma prima di affrontare l’interessante rapporto che legò per la vita, durante
quasi cinquant’anni, Saba e la moglie Lina, vorrei soffermarmi sull’analisi che
lo scrittore propone del Piccolo Berto in Storia e cronistoria del
Canzoniere. A differenza di quanto prima ho fatto notare, a proposito dei
sonetti dell’ Autobiografia, nel caso delle poesie di questa raccolta, il
poeta che rispetto a quelli era stato piuttosto sbrigativo, in questo caso si
diffonde a lungo nella loro analisi, per chiarire la quale sente la necessità di
fare riferimento alla sua terapia psicanalitica, per rendere omaggio non solo
al grande valore, sia pure non risolutivo, come abbiamo già detto, di quella
cura, ma anche, in modo esplicito, a quello di chi ne fu l’artefice, il già
citato dottor Weiss che divenne per lui, in quelle circostanze, una sorta di
sostituto del padre. Dice Saba:“Noi non vogliamo giustificare nulla: vogliamo
solo spiegare come queste strane poesie sono nate. Il paziente lettore ricorderà
forse che abbiamo spesso parlato del <<dolore di Saba>>, di quel <<pensiero
coatto>> del quale, in termini crudi, egli accusa l’esistenza nel secondo
sonetto dell’ Autobiografia. Ed anche di una specie di <<ambivalenza
affettiva>>, che lo aveva accompagnato per quasi tutta la vita. Sono cose,
queste che possono far soffrire un pover’uomo più a lungo e più atrocemente di
qualunque altra malattia; avvelenarne, per quanto alto possa essere il suo
valore individuale e sociale, l’esistenza. Ora, Il piccolo Berto porta
una dedica: al dott. Edoardo Weiss. Tutti sanno che il dottor Weiss era un
psicanalista, anzi il leader dei pochi, vergognosamente pochi, psicanalisti
italiani. Egli esercitava la sua impossibile (nel senso di difficile)
professione a Trieste prima, a Roma poi; e questo fino che i <<provvedimenti per
la difesa della razza>> non lo obbligarono a trasferirsi in America, a guarire
cioè degli americani invece che degli italiani. E’ chiaro, attraverso la dedica,
che il piccolo Berto è rinato durante una cura psicanalitica il cui
procedimento consiste nel rimuovere, o cercar di rimuovere, il velo d’amnesia
che copre gli avvenimenti della primissima infanzia, e trovare in essi le
ragioni dei conflitti che lacerano la vita dell’adulto. (Potremmo dire
dell’umanità, solo che quello che per il singolo, è l’infanzia, per l’umanità è
la preistoria. L’umanità -lo si è visto fin troppo bene- è ammalata dalla sua
preistoria). Ma non si spaventi il lettore. Noi non vogliamo parlargli né di
complessi né di procedimenti psicanalitici, né di altre cose del genere, che
sappiamo essergli- a torto o a ragione- in odio. Abbiamo solo voluto chiarire
la, reale o apparente, stranezza di alcune poesie di Saba; ci affrettiamo ad
aggiungere che nulla v’e in esse di psicanalitico. [sottolineatura
dell’autore] Sono semplicemente dei ricordi d’infanzia. Il poeta reagì al
trattamento attaccandosi a quello che, della sua infanzia, andava, mano a mano,
scoprendo: una tragedia infantile adorabile mi si va disegnando e
trasformando i ricordi in poesia.”
La citazione che Saba fa di se stesso, con quell’ossimoro, una tragedia
infantile adorabile, richiama il verso da cui siamo partiti che
racchiude in sé le rose dell’infanzia e l’abisso dell’angoscia
che la segnò. Tutto quello che, fino all’incontro con Weiss e alla rinascita del
piccolo Berto, era stato riferito nelle sue poesie solo come grumo di irrisolto
dolore è ora materia di sogno e di adorabile rimpianto. Non è stato cancellato e
neppure dimenticato, ma si è addolcito e rasserenato, grazie alla più limpida
visione che il poeta ha acquisito in se stesso e di se stesso.
SABA
E LA MOGLIE LINA
Ma fondamentale nella vita adulta di Saba è il
rapporto con la moglie Lina, che lo scrittore volle conoscere per ragioni che
sono ancora una volta materia di indagine psicologica. Mentre svolgeva il
servizio militare a Salerno, sentì raccontare da un commilitone, di ritorno da
una licenza nella sua città, la triste storia di una giovane che era stata
malamente abbandonata dal fidanzato dal quale era stata precedentemente separata
da motivi politici estranei alla loro volontà. La giovane si era a lungo
adoperata per far ritornare l’amato dall’esilio ma, quando questa possibilità
era sta infine concessa, il fidanzato, ormai avviato lungo altre strade, anche
sentimentali, non aveva voluto fare ritorno da lei. La donna era caduta in uno
stato depressivo che faceva temere per la sua salute e la sua vita. Saba decide
allora, programmaticamente, rispondendo ad una sorta di imperativo interiore, di
conoscere e di “guarire” quella giovane. Le cose andarono effettivamente così.
Tornato in licenza a Trieste “andò subito in cerca della Lina”. Quando la vide:
“una donna bruna, coi capelli nerissimi, che le ricadevano inanellati sulle
spalle, intenta ad annaffiare dei vasi di gerani, esposti, perché prendessero
aria, alla finestra, capì - sentì –che quella, o nessun’altra, era sua
moglie”.
Le citazioni sono tratte dal ricordo-racconto del 1957 ( la moglie era morta nel
novembre dell’anno precedente, Saba morirà quello stesso anno), in cui, sotto
il titolo di Come un vecchio che sogna, rievoca quelle lontane vicende
per la figlia Linuccia. E’ impossibile non vedere in questo ricordo la volontà
di sconfiggere la morte che già era intervenuta a separarli, richiamando alla
vita quella donna el’origine di quell’amore da cui erano nate per il poeta una
nuova vita e quella figlia che perpetuava la madre a partire anche dal nome
(parlando di loro con altri le chiamava le due Line e allo stesso modo si
rivolgeva loro nelle lettere indirizzate ad entrambe): “Da quello sguardo in su
e da quel sorriso da quella finestra infiorata, sei nata, alcuni anni dopo, tu,
figlia mia Linuccia”.
A proposito di questo strano matrimonio nato da una sorta di imperativo morale
che lo porta a risarcire la donna abbandonata dall’amante infedele assumendo lui
il ruolo del giovane buono, Giovanni Comisso osserva che in questo modo “egli
avrebbe vendicato la madre abbandonata dal marito, e in conclusione, sposando la
Lina avrebbe, come Edipo, sposato sua madre”. L’interpretazione è certamente
suggestiva e forse fondata da un punto di vista dell’analisi e delle sue
ambivalenze, ma certo la vita è altra cosa dagli schematismi psicoanalitici e in
questo caso, di fronte ad un amore che legò Saba e la moglie nel modo
straordinario testimoniato dal sonetto 12 dell’ Autobiografia e fu
passione, dedizione, dolore, gelosia e rabbia, gioia e fatica, limitarlo alle
sue sole origini psichiche appare piuttosto riduttivo.
Ed amai nuovamente; e fu di Lina/dal rosso scialle il più della mia
vita./Quella che cresce accanto a noi, bambina/dagli occhi azzurri, è dal suo
grembo uscita./Trieste è la citta, la donna è Lina,/per cui scrissi il mio libro
di più ardita/sincerità; né dalla sua fu fin’/ad oggi mai l’anima mia
partita./Ogni altro conobbi umano amore;/ma per Lina torrei di nuovo
un’altra/vita, di nuovo vorrei cominciare./Per l’altezze l’amai del suo dolore;/
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,/e tutto seppe, e non se stessa,
amare.
L’animale simbolo di Lina, più di ogni altro a cui pure è associata, è la
gallina, protagonista della novella che ne porta il titolo e della prima strofa
della lunga poesia a lei dedicata: A mia moglie. E’ lo stesso Saba a
riconoscere e a non sapere immediatamente spiegare l’apparente bizzarria di
questa predilezione che si trasforma addirittura in identificazione: “Se poi
qualcuno gli avesse chiesto perché tanto gli piaceva quello stupido volatile, a
cui gli altri non associano che idee gastronomiche, il fanciullo non avrebbe
forse saputo cosa rispondere. A molti infatti che allora glielo chiesero, egli
non rispose che vent’anni dopo, con una lirica, poco, anche quella, capita”.
La citazione è tratta dalla novella del 1913 La gallina e la lirica a cui
Saba si riferisce è appunto A mia moglie. La novella racconta, con
evidenti riferimenti autobiografici, di un giovane, qui chiamato Odone,
impiegato come praticante d’ufficio in una ditta commerciale di Trieste.
Ricevuto il suo primo stipendio lo porta orgogliosamente alla madre e, avendo
avuto da lei il permesso di trattenerne per sé una metà, a patto che ne faccia
buon uso e si guardi bene dall’andarlo pericolosamente a spendere con le donne,
decide in un primo momento di comperare con quei soldi un regalo per la madre,
per dimostrarle ulteriormente l’intensità del suo affetto e tutta la sua
riconoscenza. Ma, giunto al mercato con le idee ancora incerte, finisce per
essere attratto e distratto dai suoi primitivi propositi dalla vista delle
gabbie degli uccelli e del pollame, dove in particolare lo colpisce “un
bellissimo esemplare davvero, con una testolina piccola ed espressiva, un
piumaggio nero e brillante, e una coda lunga arcuata”. Bisogna sapere che, nella
sua infanzia, Odone aveva avuto come compagna di giochi e vero e proprio oggetto
d’amore una gallina, con la quale praticamente conviveva e che era infine morta
di troppo amore e troppo cibo, essendole scoppiato il cuore per troppa
grassezza. “Odone ne avrebbe voluto subito un’altra; desiderio che sua madre non
volle assolutamente appagare”. Ma ecco il desiderio rinascere di fronte a quella
gabbia del mercato per cui, spinto da un impulso irrefrenabile, la compera.
Dovendo ritornare in fretta al lavoro dà incarico al venditore di recapitarla al
suo indirizzo. Le ore del pomeriggio che lo separano dal rientro a casa
trascorrono fra un misto di ansia e ripensamenti, fra timore e pentimento, ma il
giovane è del tutto impreparato a quello che lo attende a sera. La madre lo
accoglie, diversamente da quanto temeva, allegra e contenta del graditissimo
regalo. A Odone che, sollevato, chiede di vedere la gallina, la madre, che nel
racconto porta lo stesso nome della madre vera di Saba, gliela mostra: “La
massaia aperse una porta. Dietro, appesa a un chiodo e già spennata, la gallina,
nella sua rigidità di cadavere”. Il figlio impietrisce e, sconvolto dal dolore
si ritira a piangere nella sua camera: “Il cuore gli batteva forte, e lacrime di
dolore gli pungevano gli occhi, non solo per la miserevole fine del pollo –
servito ad uno scopo così diverso da quello per cui l’aveva comprato- ma al
pensiero che sua madre- sua madre!- non lo aveva capito. Era possibile questo?
Che una madre non capisse il figlio? Che un figlio, per farsi capire da sua
madre, dovesse spiegarsi come con un estraneo? Erano fatte così le madri? (dieci
anni dopo avrebbe detto le donne), o solo la sua?”
L’episodio determina una crisi irreversibile, una crisi di crescita, premessa di
un nuovo lacerante distacco, infatti “da quella sera amò meno, sempre meno, sua
madre”.
Di questa novella ha dato una interessante spiegazione in chiave psicanalitica
Mario Lavagetto, interpretandone il diffuso simbolismo anche alla luce della
ritualità ebraica che di certo non era, almeno inconsapevolmente, estranea a
Saba. In base a questo la gallina rappresenta la “reincarnazione del padre
lontano”, nei confronti del quale la madre compie una sorta di assassinio
rituale, compiendo il quale però, in virtù di una ambigua ambivalenza sempre
presente nei simboli, “uccide anche se stessa E’ tuttavia possibile un’altra
interpretazione, più immediatamente evidente. La gallina è già in questa novella
la moglie, l’altra donna, la più importante e la più pericolosa delle donne da
cui la madre mette in guardia il figlio; è la donna il cui amore e il desiderio
per la quale sono più forti e vincenti, tanto che la madre non riuscirà a
staccare il figlio da lei, come un tempo potè fare con un’altra antagonista,
strappandolo alle braccia della amata nutrice. Uccidendo la gallina la madre
tenta di eliminare un altro oggetto d’amore. Ma la vita, con le sue necessità e
crudeltà sentimentali, ha già cominciato ad essere più forte di lei. Infatti ,
come abbiamo già visto, Odone-Saba “da quella sera amò meno, sempre meno, sua
madre”. Questo disamore è necessario perché possa nascere in lui un altro amore
che sarà il nuovo oggetto anche del suo canto: “Ed amai nuovamente; e fu di
Lina”, tema centrale della raccolta Trieste e una donna. Questa lettura
mi sembra peraltro autorizzata dalla stesso Saba quando accosta la gallina del
racconto a quella della poesia dedicata vent’anni dopo alla moglie:
Tu sei come una giovane,/una bianca pollastra./Le si arruffano al vento/le
piume, il collo china/per bere, e in terra raspa;/ma nell’andare, ha il
lento/tuo passo di regina,/ed incede sull’erba/pettoruta e superba./E’ migliore
del maschio./E’ come sono tutte/le femmine di tutti/i sereni animali/che
avvicinano a Dio./Così se l’occhio, se il giudizio mio/non m’inganna, fra
queste hai le tue uguali,/e in nessuna altra donna./Quando la sera assonna/le
gallinelle,/mettono voci che ricordan quelle,/dolcissime, onde a volte dei tuoi
mali,/ti quereli, e non sai/che la tua voce ha la soave e triste/musica dei
pollai.
SABA
E GLI EBREI
L’altro tema che mi pare opportuno trattare, con
riferimento alle origini e all’infanzia del nostro, è quello del legame fra Saba
e l’ebraismo che, a dir la verità, diventa per lui, come per altri
drammaticamente significativo, solo nell’età adulta, quando è chiamato a fare i
conti con la sua componente ebraica dalle Leggi razziali e dalla successiva
persecuzione antisemita messa in atto dal nazismo e dal fascismo.
Saba non ebbe nell’infanzia una educazione religiosa ortodossa. L’ebraismo
significava per la madre e la sua famiglia, più un’appartenenza ad un gruppo che
una fede rigorosamente praticata, tanto è vero che non ci furono problemi ad
affidare il figlio, che fra le altre cose non fu mai circonciso, alle cure di
una nutrice cattolica e praticante che, nell’ambito delle sue consuetudini, non
esitava a farsi accompagnare dal bambino in Chiesa e ad impartirgli, senza
peraltro nessuna volontà di proselitismo, insegnamenti e pratiche di culto
cattoliche. In quell’epoca, il conflitto fra le diverse fedi delle due donne e
l’inevitabile confusione nella mente del bambino, esprime più la loro
concorrenza affettiva che un preciso significato religioso e serve più che
altro da pretesto alla madre per sottrarlo infine, definitivamente alla balia. A
questo si deve aggiungere che il padre fedifrago era cattolico, per cui su
questa religione viene deviata una ostilità che ha ben altra origine, mentre
tutti gli esempi maschili positivi che essa offriva al figlio appartenevano
alla sua famiglia ebrea, a partire dallo zio, oculato amministratore che fungeva
da sostegno economico per la donna e il figlio senza beni, per culminare nel
modello ideale di cui la madre avrebbe voluto che Saba seguisse le orme, Samuele
Davide Luzzatto, detto Sciadàl, letterato e gloria della famiglia. Ma il giovane
non subì che marginalmente quell’influenza, soprattutto da un punto di vista
culturale, preferendo le letture dei poeti classici e contemporanei della
letteratura italiana, alla lettura della Torah. Anche il modello propostogli non
lo interessò più di tanto e anzi scandalizzò e preoccupò la madre dichiarandole
che sognava per il suo avvenire una gloria addirittura più alta di quella di
Sciadàl, e in un altro campo, quello poetico.
Quando nel 1952, Saba si accinge a raccogliere in vista di una pubblicazione le
sue prose sparse, recupera anche cinque racconti che ricordava di avere scritto
“come un incubo” più di quarant’anni prima. Sono quelli che nel volume delle
Prose compaiono per primi con il titolo collettivo Gli Ebrei-1910-1912.
Più che racconti veri e propri sono ricordi esposti in forma narrativa di
persone e situazioni riconducibili all’ambiente materno, e di essi, nella
Prefazione dice che “furono scritti quando l’antisemitismo pareva un gioco; ed
io potevo, senza rimorso, abbandonarmi alla comprensiva ironia, venata di
nascosta tenerezza, verso persone e cose (vere le une e le altre) che conobbi e
vidi, o di cui, più spesso, ho sentito parlare, al tempo della mia fanciullezza.
Mia madre- come si sa- era ebrea ed ebrea era tutta la sua famiglia. I racconti
sono nati da due movimenti: dalla reazione (venata -come ho detto- di tenerezza)
ad un modo di essere che non era il mio, che era già molto raro in quegli anni,
e che mi stupiva come <<una nota di colore>> in più nel <<mondo meraviglioso>>,
e, penso, da una specie di nostalgia di mio padre, che non era ebreo, e conobbi
poco e tardi”.
Saba avverte bene il rischio del fraintendimento a cui può esporsi con questi
racconti, basti leggere Il ghetto di Trieste nel 1860, per rendersi conto
di quanto poco possa apparire, per dirla con un termine ora in voga,
politically correct, l’immagine degli ebrei e dei loro comportamenti
commerciali, dopo gli orrori della persecuzione antisemita, in seguito alla
quale essere ebreo e parlare degli ebrei ha assunto un nuovo significato e ha
modificato anche i modi della loro rappresentazione. Egli vuole pertanto
sgombrare il campo da qualunque possibile interpretazione in chiave riduttiva o
eccessivamente critica dei comportamenti degli ebrei da lui descritti la cui
apparente, ma solo apparente, e non sostanziale diversità rispetto all’ “altra
gente” è riconducibile a condizioni storiche e a ragioni di costume. Per parte
sua, concludendo la Prefazione, afferma: “Aggiungo solo, a scanso di equivoci,
che –alieno per mia natura, e per quanto possibile alla natura umana- da odi
religiosi e razziali, se ho sempre riconosciuto quelli che sono stati i pregi e
i difetti degli ebrei (simili, almeno qui in Italia, a quelli di tutti gli altri
italiani e mediterranei) non mi sono mai sentito che italiano fra italiani. Il
resto, prima che la pazzia e la disperazione degli uomini ne facessero una
tragedia, era per me -lo ripeto volentieri- poco più che una <<nota di
colore>>”.
Dunque l’ebraismo non era, non è mai stato, un vero problema per Saba, fino che
le vicende storico-politiche non lo hanno fatto diventare tale, ma anche in
questo caso le difficoltà di ogni natura che dovette subire e i rischi che corse
non furono tali da fargli scoprire, come per molti altri nelle sue condizioni,
un senso di appartenenza, una condivisione, sia pure forzatamente indotta
dall’esterno, della cultura e dei valori ebraici. Tutto quello che andava
capitando in Europa agli ebrei Saba lo imputava alla follia degli uomini e alla
responsabilità di chi non aveva saputo o voluto vedere in tempo l’abisso in cui
il fascismo stava trascinando gli uomini, tutti gli uomini, anche se gli ebrei
furono vittime in modo più atroce e tragico di tutti gli altri. Anche nelle
lettere scritte in quel periodo, oltre che nella produzione poetica, non C’è
traccia di un ripensamento di tipo religioso o di un interessamento politico
riconducibile alla specificità dell’ebraismo. Saba vive la condanna del suo
essere per metà ebreo come un fatto, un altro doloroso capitolo della sua vita
già così dolorosamente segnata da altre vicende.
E’ in un periodo successivo che le sue radici ebree vengono discusse in modo
problematico, duramente polemico e del tutto privo di ogni ipotesi di
fratellanza razziale , non a caso ancora una volta in seguito ad un impulso di
tipo psicanalitico.
Nell’agosto del 1946 prese avvio un interessante carteggio con lo psicanalista
ebreo Joachim Flescher, su iniziativa di quest’ultimo. Il motivo di questo
approccio fu l’ammirazione da parte di Flescher per lo scritto già citato in cui
Saba contestava la rozzezza delle idee di Croce sulla psicanalisi. Ben presto la
corrispondenza arriva a toccare tematiche più personali ed è lo psicanalista a
dare involontariamente avvio a quello che gli apparirà come uno sfogo
“antisemita” da parte dello scrittore. Nella lettera del 9 marzo 1949,
riferendosi alle sue poesie dice infatti: “…dalla lettura dei suoi versi mi
sembra che Lei probabilmente non ha avuto una madre troppo dolce e
<<permissiva>> e che comunque delusioni e rinunce La dovevano aver colpito prima
ancora che si fosse delineata la costellazione <<edipica>>. Così solo mi spiego
il verso antiebraico in una sua poesia, che prima pensavo rivelasse che il Suo
padre fosse stato ebreo e non – come seppi dalla Cronistoria - la madre.
Un rapporto insoddisfacente con la madre in quella fase ci rende molto
vulnerabili. (…) Spesso, per mantenere <<buona>> l’immagine della madre (…) il
risentimento per le frustrazioni viene dislocato ( ingiustamente) sul padre. Lei
mi sembra ha perfino –almeno in quel verso- spostato sul padre anche l’elemento
ebraico, come causa di certi dispiaceri (antisemitismo), come allusione ad altre
più profonde delusioni riferibili alla madre. Dal padre poi parte la catena
Superio -opinione sociale- delusione- e reattiva depressione”.
E’ come se le osservazioni di Flescher facessero da detonatore e portassero
finalmente allo scoperto il groviglio affastellato di rancori personali e di
motivazioni di tipo spirituale e addirittura etico che stanno alla base del suo
presunto <<antisemitismo>>. Nella lunga lettera di risposta, dopo avere fornito
ampi chiarimenti sulla natura, che noi già conosciamo, dei suoi rapporti
familiari e sul clima in cui maturarono i suoi anni di infanzia, nell’ultima
parte, con un piglio, un’energia e una lucidità d’analisi che tradiscono la
forza della repressione a lungo trattenuta prosegue: “E adesso vengo al mio
<<antisemitismo>>. Non so da quali miei versi lei lo abbia dedotto; se da uno
dei Versi militari (“di troppo ebraico, di troppo panciuto”) o se dalla
famigerata strofetta della Capra…”
A partire dal ricordo d’infanzia che lo vede aspramente rimproverato dalla
madre, ebrea, per essere andato, contro la sua volontà, in chiesa con la balia,
luogo per lui di delizie che non avevano nulla di religioso, e da quello della
balia stessa che lo minacciava, quando era cattivo, di <<farlo ebreo>>, con
evidente riferimento alla circoncisione che il bambino inconsapevolmente
interpretava come castrazione, si costruisce per Saba una serie di
identificazioni. L’ebraismo, per motivazioni che prescindono da qualunque
valutazione di carattere religioso, si ricollega alla durezza della madre e
alla paura della circoncisione-castrazione, il cattolicesimo con la bontà, i
profumi e il calore della balia che, fra le altre, gli offre anche la
consolazione, tipicamente cattolica, dell’angelo custode che lo accoglie e lo
protegge nel sonno notturno. Dal caso personale Saba passa poi a valutazioni di
carattere generale che confermano, a suo dire, il carattere “lieto e commovente”
delle rappresentazioni artistiche di tipo figurativo a cui si affida la
rappresentazione di religioni serene come quella greca antica , che si incarna
in immagini di giovani liberi, felici, in armonia con se stessi e con il mondo.
Ben diversa è la rappresentazione di se stessa che offre la religione ebraica,
dominata da immagine cupe di vecchi severi, “schiacciati a terra dal senso di
colpa”, e che si esprime in liturgie spaventosamente repellenti come il suono
stridulo e agghiacciante del Sofar [corno di montone rituale]. Gli ebrei in
quanto tali,, la cui maggiore responsabilità consiste proprio nell’essere “stati
i maggiori apportatori nel mondo del <<senso di colpa>>, cioè della sola
effettiva <<colpa>> che esista. dovrebbero cessare di esistere. E’ questa la più
importante ragione per cui Saba non mostra nessuna simpatia neppure per il
progetto del nuovo stato di Israele che darebbe certificazione ufficiale e
diritto di esistenza a ciò che lui vorrebbe invece eliminare.
Egli si rende conto di quanto sia difficile esprimere queste posizioni in
quegli anni e dopo quello che è accaduto, sa quale rischio correrebbe di essere
frainteso nelle sue vere intenzioni, pertanto, anche nell’ambito di questo
sfogo privato e confidenziale vuole ben chiarire le sue ragioni a Flescher: “Ma
lasciando stare le immagini, IO SO CHE COSA SONO E CHE COSA SIGNIFICANO GLI
EBREI (lo so più di lei, perché in me c’è la parte giudicata e la giudicante;
niente – si capisce- di quello che pensava Hitler, piuttosto un’infinita miseria
che una qualsiasi potenza di male) e IN QUANTO EBREI, CHE SI SENTONO
EBREI, che vogliono [maiuscolo e corsivo nel testo] essere ebrei, essi e
i loro figli, e i figli dei loro figli, decisamente non li amo. In quanto
persone umane è un’altra cosa: ho conosciuto e conosco ebrei ed ebree che sono
persone deliziose, fra le più deliziose che si possono trovare al mondo. Ma
queste persone né si vergognano né ci tengono ad essere ebrei; e in pratica
nemmeno lo sono. Insomma, se dipendesse da me, non farei nessun male agli ebrei.
Punirei solo con l’immediata fucilazione nella schiena tutti quelli che
praticano e fanno praticare la circoncisione ( non la sola, ma certamente una
delle cause per cui gli ebrei si sposano solo fra di loro: un ragazzo ogni poco
timido si vergogna di mostrare quella ridicola mutilazione a una donna che non
sia della sua razza). Così pure proibirei il culto nei templi, scioglierei le
loro comunità ecc. ecc. Che si battezzino, se vogliono battezzarsi, e se no
rimangano (come ho fatto io) senza nessuna religione. Non colpirei gli
individui, aiuterei solo gli ebrei a non sentirsi più ebrei, e quindi a cessare
di esserlo”.
Flescher, prima di riprendere, per ribatterle e contestarle , le dure
affermazioni di Saba, sostiene che “la Sua severità contro la religione ebraica
è di natura emotiva” e credo si difficile dargli torto, riconoscendo perlomeno
un evidente fondo di emotività nella dura presa di posizione antiebraica di Saba
che, tuttavia, come è altrettanto evidente, non ha nulla a che vedere, né con le
motivazioni né con la pratica dell’antisemitismo messa in atto da nazismo e
fascismo.
Per concludere ora questa lunga riflessione, credo di poter dire che il
polemico, rabbioso riferimento di Saba all’orrore della circoncisione come
timore patito e come fatto subito, sia pure quest’ultimo non da lui
direttamente, ci riporta là dove eravamo partiti, cioè a quel padre mai avuto
che, per sposare una donna ebrea, per necessità e non per amore, accettò di
essere circonciso, di subire cioè una castrazione simbolica. Per come la vede
ora il figlio, questa mutilazione, inflitta per di più ad un uomo adulto, ebbe
una parte non secondaria, insieme ad altri aspetti poco raccomandabili del suo
carattere, nel determinare in lui quel rancore che presto si trasformò in
volontà di fuga definitiva da quella donna e da quel mondo così cupi ed ostili.
Quell’uomo che la madre odiò poi per sempre e la cui mancanza fece tanto
soffrire il giovane Umberto, è dunque, infine, non più da figlio a padre, ma da
uomo a uomo, più da compiangere che da condannare, anche perché, le stesse
esperienze di vita da lui vissute e conosciute in altri gli hanno nel frattempo
insegnato quanto possano essere forti le tentazioni di fuga da pesi che, in
certi momenti, appaiono insopportabili alla fragilità umana.
Ypsilon, 25 de Fevereiro de 2011
Poesia
Um crepúsculo interminável
Um grande poeta numa grande edição
Maria da Conceição Caleiro
Poesia
Umberto Saba
(Selecção, tradução, introdução e notas de José Manuel Vasconcelos)
Assírio & Alvim
Antes de mais, importa saudar a qualidade da edição de um grande poeta - Umberto Saba (1883-1957) - cuja letra, como uma melopeia que parece ser algo antiquada, primeiro se estranha, depois definitiva e musicalmente se entranha (últimos versos: “
Poeta é como o porco
Pesa-se depois de morto.
“Poesia” (antologia de “Il Canzionere”) é uma edição bilingue, a tradução é excelente, tem prefácio; e ainda mais uns “extras” como notas e fotografias.
Atente-se a um poema já tardio e que resume a arte poética de Saba:
Amei palavras gastas que ninguém
ousava. Encantou-me a rima flor
amor,
a mais antiga das difíceis do mundo.
Amei a verdade jazente no fundo, quase um sonho olvidado, que a convulsão
redescobre amiga. Com medo o coração
dela se aproxima, e mais se farta.
Traços capitais condensados nesse últimos versos: Saba serve-se de uma prosódia clássica (mas não simplista) que declina com delicadeza e minúcia ao longo da sua vida, arte poética na senda da tradição italiana, em tudo distinta das vanguardas, das rupturas, do simbolismo de Mallarmé e ate de Montale seu amigo (só Sandro Penna o enciúma). De Saba diz Elsa Morante ter sido “um dos raros poetas que ergueu a complexidade do destino moderno à altura de um canto límpido”. Outro traço capital: o poeta devolve ao leitor uma temática obsessiva e ensimesmada, autobiográfica, narcísica, ao rés do real (a “verdade jazente” de que o coração introspectivo não cessa se aproximar), prosódia de uma cidade encantatória e periférica, também ela convulsa (foi um porto do Império Austro-húngaro), Trieste. Prosódia clássica alicerçada em sinestesias, oximoros, elipses, numa sintaxe requintada, de poemas geralmente curtos.
O conjunto de poemas que Saba foi escrevendo e rescrevendo é uma espécie de diário da existência em verso, tão reconhecíveis e “despudoradas” que são as alusões biográficas. Depois de uma terapia feita com Edoardo Weiss (discipulo de Freud) e de um imenso interesse pela “nova” ciência, poder-se-ia chamar a “Il Canzionere” psicanálise da existência ou, se quiserem, livro de horas de uma vida dedicada a Weiss. Sob um pseudónimo, Saba redige “Storia e Cronistoria del Canzoniere”, onde se traça a circunstância de cada poema, o canto que se evolou de cada sonho e recordação. Curioso o poema:
Palavras,
onde o coração do homem espelhava
- nu e surpreso - as origens; um ângulo
procuro no mundo, o oásis propício para vos purificar com o meu pranto
da mentira que vos cega. Conjunto
das memórias espantosas o acumulado
derreter-se-ia, como neve ao sol.
É uma existência atravessada pelos meandros da cidade, pelo seu mar alegórico que chama o longe: Trieste, a mesma de Svevo, Magris, Joyce, Rilke, Jan Potocki, Larbaud e de muitos que por lá passaram ou viveram, um não-lugar procedente do Império que se vai desfazer, encruzilhada de italianos, eslovenos, austríacos, alemães, turcos, magiares, arménios, judeus, gregos. Espaço retalhado onde vinga uma falta, a nostalgia irreparável de uma qualquer origem perdida.
Saba produz-se nesta História e na sua própria história pessoal, ambas sinónimo de Trieste e da impossível unidade; é a partir dessa dor (dessa neurose) que o dilacera e embala, e que ronda com ele pela cidade, que Saba faz e refaz os poemas que se vão acrescentando. Como a cidade, gera-se em mais do que uma origem, cresce cindido, familiar e socialmente: filho de uma judia e de um pai católico convertido por interesse ao judaísmo, que a abandonaria. Nasce no gueto, sombrio, apertado como quase todos, uma mãe repudiada por um pai “ que ele só encontra aos 20 nos e que afinal “era alegre e ligeiro”, enquanto a \ mãe “da vida o grande peso sentia”. A mãe é um lugar que Saba vive como sendo o da Lei, o da formatação, de um alter-ego pesado; o abrigo materno só o encontra na ama eslovena, católica, de quem o separaram: Peppa Sabbaz. Será de Sabbaz que se inventa Saba? O vaivém entre várias mulheres e a mãe, a mecânica das repetidas separações, marca o autor, psicológica e literariamente
Por nascer meu coração em dualismo,
quantas penas sofri p’ra um ficar
Quantas rosas a esconder um abismo.
É levado para a casa de primas em Pádua, reencontra o sentimento maternal na benfazeja Tia Regina. Será ela que o irá ajudar a estabelecer uma livraria-antiquária na Via S. Nicolà, que ainda hoje existe.
O judaísmo foi sempre nele fonte de ambiguidade, de atracção e repulsa, mesmo tendo-se casado com uma judia, Lina, e frequentado até ao advento do fascismo sobretudo judeus (ateus). O interlocutor desta poesia, o seu tu, aliás, é o mor das vezes Lina, ou Chiaretta (a filha), amores perdidos como a muito imaginada e mítica ama, ou outros mais vagos, ou o outro de si mesmo. Esta poesia “assiste” ao latejar do mundo à volta, à azáfama da gente marulhando como uma onda maciça, ou fragmento a fragmento: aparições imprevistas, acasos e cores que irrompem e caem a seus olhos quando deambula ou se senta ou abre a janela, e cuja lembrança se transcende depois poeticamente. Na cumulação quê produz em espiral de luz e sombra poemas muito belos, aprofunda-se o infinito que é o fundo sem fundo sombrio da incompletude, da imensa dor, da dualidade do eu, e é esse não-lugar que Saba recusa abandonar, escavando nele um tesouro, qual húmus de que se alimenta. Parece escrever de um ângulo pré-póstumo.
Acasos (a)colhidos no café, na taberna, no porto, nas ruas, da janela, das figuras que com que se depara. São múltiplas e intensas as aparições com que Saba tropeça e cujo eco a memória intensifica. Exemplo:
Lugar da fruta
Verduras, fruta, flores da bela
estação. Alguma cestas onde à sede
se revelam doces polpas cruas.
Entra um miúdo com as pernas nuas,
altivo, mas logo foge.
Escurece
a humilde lojeca, (...)
E lá fora, ele, ao sol
afasta-se ligeiro com sua sombra atrás.
O erotismo e uma imensa sensualidade interceptam estes versos, sublinham os corpos das raparigas jovens, dos marinheiros. Fala-se da bi ou homossexualidade do autor de “Ernesto”, esse romance inacabado que conta as experiências homossexuais de um jovem, e que Saba pediu à filha para destruir. Ele próprio se iniciou com alguém “belo e alegre como um deus”, não cessando a seguir de cantar e amar a mulher, Lina. É indecidível, em Saba nada coincide consigo mesmo. Há sempre um hiato.