4-4-2003
Umberto Saba
(1883 – 1957)
Índice dos poemas:
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La bocca che prima mise alle mie labbra il rosa dell'aurora, ancora in bei pensieri ne sconto il profumo. O bocca fanciullesca, bocca cara, che dicevi parole ardite ed eri cosi'dolce da baciare. Ouça o poema, aqui |
A boca que primeiro levou aos meus lábios a cor da aurora ainda em belos pensamentos desconto o aroma.
Ó pueril boca, amada boca, que dizias o que ousavas e tão doce eras a beijar.
Tradução de Eugénio de Andrade
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Dalla stanza
vicina ascolto care
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Noite de verão
Do cômodo ao
lado caras vozes
Tradução de Júlio Castañon Guimarães Inimigo Rumor n.º 4 - Novembro de 2001 |
Da quando la mia
bocca è quasi muta
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Desde que
Desde que tenho
a boca quase muda Inimigo Rumor n.º 4 - Novembro de 2001
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Tre poesie alla mia balia
1
Mia figlia mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo; ed io alla sua carezza m' addormento.
Divento legno in mare caduto che sull' onda galleggia. E dove alla vicina sponda anelo, il flutto mi porta lontano. Oh, come sento che lottare è vano! Oh, come in petto per dolcezza il cuore vien meno!
Al seno approdo di colei che Berto ancora mi chiama, al primo, all' amoroso seno, ai verdi paradisi dell' infanzia
2
Insonne mi levo all' alba. Che farà la mia vecchia nutrice? Posso forse ancora là ritrovarla, nel suo negozietto? Come vive, se vive? E a lei m'affretto, pure una volta, con il cuore ansante.
Eccola : è viva; in piedi dopo tante vicende e tante stagioni. Un sorriso illumina, a vedermi, il volto ancora bello per me, misterioso. E' l'ora a lei d'aprire. Ad aiutarla accorso scalzo fanciullo, del nativo colle tutto improntato, la persona china leggera, ed alza la saracinesca.
Nella rosata in cielo e in terra fresca mattina io ben la ritrovavo. E sono a lei d'allora. Quel fanciullo io sono che a lei spontaneo soccorreva; immagine di me, d' uno di me perduto...
3
...Un grido s'alza il bimbo sulle scale. E piange anche la donna che va via. Si frange per sempre un cuore in quel momento. Adesso sono passati quarant'anni.
Il bimbo è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto di molti beni e molti mali. E' Umberto Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca, a conversare colla sua nutrice; che anch'ella fu di lasciarlo infelice, non volontaria lo lasciava. Il mondo fu a lui sospetto d' allora, fu sempre (o tale almeno gli parve) nemico.
Appeso al muro è un orologio antico così che manda un suono quasi morto. Lo regolava nel tempo felice il dolce balio; è un caro a lui conforto regolarlo in suo luogo. Anche gli piace a sera accendere il lume, restare da lei gli piace, fin ch' ella gli dice: "E' tardi. Torna da tua moglie, Berto".
da: "Il Canzoniere" (1948) |
Um grito tradução de Jorge de Sena |
(1911)
Ho parlato a una capra.
Quell'uguale belato era fraterno
In una capra dal viso semita Da Il Canzoniere
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Ritratto
della mia bambina
La mia bambina con la palla in mano, Da Il Canzoniere Analisi, aqui |
C’era, un po’ in ombra, il focolaio; aveva C’era nel
mezzo una tavola dove C’era,
dipinta in verde, una stia, e la gallina in libertà raspava. C’era,
mal visto nel luogo, un fanciullo. Da Il Canzoniere Analisi, aqui |
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Oggi il tempo è di pioggia. Sembra il giorno una sera, sembra la primavera un autunno, ed un gran vento devasta l'arboscello che sta, e non pare, saldo. Tu lo guardi. Hai pietà forse di tutti quei candidi fiori che la bora gli toglie; e sono frutta, sono dolci conserve per l'inverno quei fiori che tra l'erbe cadono. E se ne duole la tua vasta maternità.
Da Il Canzoniere |
È notte, inverno rovinoso. Un poco sollevi le tendine, e guardi. Vibrano i tuoi capelli selvaggi, la gioia ti dilata improvvisa l'occhio nero;
che quello che hai veduto - era un'immagine della fine del mondo - ti conforta l'intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago di ghiaccio, sotto una lampada storta.
Da Il Canzoniere
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Tu sei la
nuvoletta, io il vento;
Vanno a
sera a dormire dietro i monti
Da Il canzoniere |
Malinconia la vita mia struggi terribilmente; e non v'è al mondo, non c'è al mondo niente che mi divaghi.
Niente, o una sola casa. Figliola, quella per me saresti. S'apre una porta; in tue succinte vesti entri, e mi smaghi.
Piccola tanto, fugace incanto di primavera. I biondi riccioli molti nel berretto ascondi, altri ne onesti.
Ma giovinezza, torbida ebbrezza, passa, passa l'amore. Restan sì tristi nel dolente cuore, presentimenti.
Malinconia, la vita mia amò lieta una cosa, sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa, ch'altro non spero.
Quando non s'ama più, non si chiama lei la liberatrice; e nel dolore non fa più felice il suo pensiero.
Io non sapevo questo; ora bevo l'ultimo sorso amaro dell'esperienza. Oh quanto è mai più caro il pensier della morte,
al giovanetto, che a un primo affetto cangia colore e trema. Non ama il vecchio la tomba: suprema crudeltà della sorte.
Da Il Canzoniere
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Greggia, tu che il sobborgo impolverato traversi a sera: ed un lezzo a me grato
dietro te lasci, e hai tanta via da fare, tra la furia dei carri e lo squillare
dei tram; dove la vita ha maggior fretta come lenta procedi, e in te ristretta!
Greggia che amai dall’infanzia sperduta, per te la doglia si fa in cor più acuta;
e mi viene, non so, d’inginocchiarmi; non so, nel tuo lanoso insieme parmi
scòrger io solo qualcosa di santo, e d’antico, e di molto venerando.
Ti mena un vecchio, sui piedi malcerto: un Dio per te, popolo nel deserto.
Da Il Canzoniere
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CINQUE POESIE PER IL GIOCO DEL CALCIO (1933-1934)
Il portiere
caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l'amara luce.
Il compagno in ginocchio che l'induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l'odio consuma e l'amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
Presso la rete inviolata il portiere
- l'altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch'io son
parte.
Anch'io tra i molti vi saluto, rosso
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.
Le angosce
che imbiancano i capelli all'improvviso,
sono da voi così si lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.
Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.
Di corsa usciti a mezzo il campo,
date
prima il
saluto alle tribune. Poi,
quello che
nasce poi,
che all'altra parte rivolgete, a quella
che più nera si accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch'abbia un nome.
Il portiere su e giù cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s'avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all'erta spia.
Festa è nell'aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessun'offesa varcava la porta,
s'incrociavano grida ch'eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d'amore orna Trieste.
Galletto
è alla voce il fanciullo; estrosi amori
con quella, e crucci, acutamente incide.
Ai confini
del campo una bandiera
sventola
solitaria su un muretto.
Su quello
alzati, nei riposi, a gara
cari nomi lanciavano i fanciulli,
ad uno ad uno, come frecce. Vive
in me l'immagine lieta; a un ricordo
si sposa - a sera - dei miei giorni imberbi.
Odiosi di
tanto eran superbi
passavano là
sotto i calciatori.
Tutto
vedevano, e non quegli acerbi.
Tredicesima partita qui
Altri poemi di Umberto Saba:
http://www.liceopetrarcats.it/eventiappuntamenti/PDF/Saba_testi.pdf
http://www.club.it/autori/grandi/umberto.saba/poesie.html
QUANTE ROSE A NASCONDERE UN ABISSO
di Rita Turrini
L’infanzia difficile di Umberto Saba, le conseguenze nella vita e la sua rielaborazione poetica.
...da leggere, qui
Capitolo 5 - Dalla provincia: Trieste e Saba
Stefano Verdino
Anche in Italia in quell’epoca sono rinvenibili poeti affini, lontani dal chiasso del Futurismo, lontani anche fisicamente, perché non vivono nelle capitali culturali (Milano - Firenze – Roma), ma in città periferiche, di debole tradizione letteraria. Due luoghi, in questo senso primeggiano, Trieste e Genova.
Trieste, negli anni Dieci, è città ancora austriaca e percorsa dall’Irredentismo, mentre dopo, divenuta italiana, sarà percorsa dalla nostalgia per il dissolto impero asburgico. Un curioso gioco del destino, comunque, fa sì che in questo porto adriatico allora vivessero personaggi non da poco, tra loro legati: il giovane irlandese James Joyce, massimo narratore del secolo e insegnante di inglese ad un attempato industriale di vernici marine, Italo Svevo, scrittore in gioventù (a fine Ottocento) e poi, ora, tornato a scrivere in età matura con La coscienza di Zeno, primo romanzo italiano in cui ha parte il nuovo sapere della psicanalisi, sorta a Vienna all’alba del XX secolo. ATrieste la esercita un giovane allievo ebreo (Edoardo Weiss) del celebre dott. Freud ed ha in cura Svevo, che vuole smettere di fumare, proprio come Zeno Cosini, il protagonista del romanzo che sta scrivendo.
Più discosto da loro c’è Umberto Saba (Trieste 1883 – Gorizia 1957), di discreta famiglia di commercianti (lui stesso per tutta la vita farà il libraio antiquario in via S.Nicolò). Ha una grande passione per la poesia (e per il melodramma) e pubblica volumi a sue spese; ama l’Ottocento e non si fa problemi di continuare la tradizione, fedele a rime e schemi metrici, al linguaggio letterario. Ma il suo mondo poetico è un mondo nuovo: è il quotidiano che viene “cantato” (è il caso di dirlo) per se stesso, per i comuni eventi e sentimenti del tutto riscattati dalla “noia” dei decadenti e posti nella fragranza naturale del loro esistere. La poesia tuttora più famosa di Saba venne scritta allora ed ha per tema la propria giovane moglie, celebrata nel paragone con una serie di animali domestici:
Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra,
le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
É come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca 1;
libera ancora e senza
gravezza 2, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
É così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia 3
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna 4.
Pare che, lì per lì, la signora Saba vi rimanesse male: di solito la donna era celebrata dai poeti con paragoni ad animali di lusso, esotici, belli e feroci, magari come tigri o leonesse, molto letterari e di carta, giacché nessuno scrittore in Italia aveva pratica di animali feroci; ma mai la donna era stata messa seriamente a confronto con gli animali da cortile e domestici. C’è anche dell’altro che poteva far scattare l’irritazione della Signora Saba. In A mia moglie la chiarezza del testo e la sua “serenità” tengono anche conto di zone di contrasto e di buio: attraverso gli animali risalta una gamma di sentimenti, anche tra loro opposti e contraddittori, che però esistono e vanno, per verità, espressi. C’è la dolcezza, ma anche la ferocia e la gelosia. La vita deve essere raccontata, per Saba, così come è, senza idealismi, e senza provocatorie degradazioni.
Ma la vita è anche sfuggente e misteriosa, ha tanti elementi inconsci, di cui Saba (anch’egli cultore della psicanalisi) tiene ben conto, senza particolari esibizioni. Saba scrisse poesie per quasi sessant’anni, fino alla morte, con fedeltà a queste sue prime e originali scelte, sempre appartato da movimenti e tendenze. La sua vita fu dura: ebreo, dovette nascondersi (a Firenze e a Roma) negli anni di persecuzione; in vecchiaia visse poi con dolore lo sconquasso della Venezia Giulia (passata in gran parte alla Yugoslavia). La sua poesia fu sempre di cordiale comunicazione nel metterci sotto gli occhi, un po’ come in Machado, il fascino e il bello cavati dalle situazioni più semplici e quotidiane, addirittura attimali come la poesia (Frutta erbaggi) che fotografa l’improvvisa grazia di un ragazzo entrato a comprare in un negozio di frutta e verdura, e la successiva perdita di luce e di vita di quel negozio, dopo la sua partenza:
Erbe, frutta, colori della bella
stagione. Poche ceste ove alla sete
si rivelano dolci polpe crude.
Entra un fanciullo colle gambe nude,
imperioso, fugge via.
S’oscura
l’umile botteguccia, invecchia come
una madre.
Di fuori egli nel sole
si allontana, con l’ombra sua, leggero.
In altri casi Saba dà voce alle comuni passioni, come il tifo calcistico; cinque sono le sue poesie per il gioco del calcio, ma tra queste ricordo Tredicesima partita, commentata dallo stesso autore:
La “Tredicesima partita” non fu giocata a Trieste, né vi entravano i rosso alabardati [divisa della Triestina]. Il poeta si trovava, assieme a sua figlia, a Padova. Si disputava in quel pomeriggio (non festivo) una partita eliminatoria fra il Padova ed un’altra squadra della quale non rammentiamo il nome. Perderla avrebbe significato, per il Padova, la retrocessione dalla prima alla seconda categoria del campionato. Si può immaginare lo stato d’animo dei pochi padovani presenti; pochi perché - come abbiamo detto - il rito si celebrava in un giorno feriale. Il Padova aveva contro di sé una squadra molto più forte; per di più non era in forma. Uno dei giocatori si era, all’ultimo momento, ammalato, lo sostituiva un anziano grassone, che da molto tempo non giocava più , sembrava non potesse reggere alla fatica, e segnò il goal della vittoria. (Fu un delirio) 5.
E la poesia descrive in sintesi il movimento collettivo di queste emozioni, ma agilmente con un paragone finale le pone anche al di là della gara e del calcio:
Sui gradini un manipolo 6 sparuto
si riscaldava di se stesso.
E quando
- smisurata raggiera 7– il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarì il presentimento della notte.
Correvano sue e giù le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.
Piaceva
essere così pochi intirizziti
uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.
(da: CINQUE POESIE PER IL GIOCO DEL CALCIO)
Quest’ultimo paragone d’improvviso ci trasporta in un paesaggio non più reale: gli uomini sono pochi, quasi dei superstiti, nello stesso tempo c’è il piacere, pur nel freddo, di sentirsi uniti (la forte rima baciata “intirizziti: uniti”) a causa della spasimante attenzione nel vedere come va a finire la partita, anzi “l’ultima gara”, quasi in gara ci fossero la vita e la morte e non solo una partita al pallone.
1 Una mucca.
2 Senza il giogo.
3 L’ape.
4 Per i testi U. SABA, Tutte le poesie, a c. A. Stara, Milano, Mondadori, 1994,
pp.74-6, 457, 442.
5 U. SABA, Storia e cronistoria del Canzoniere, Milano, Mondadori, 1977,
pp 254-5.
6 Gruppetto di persone.
7 Si riferisce al sole.
Da Stefano Verdino, Racconto della poesia il Novecento europeo
De Ferrari & Devega S.r.l. Editoria e comunicazione, 2003
Genova.
The TLS n.º 5366 February 3, 2006
Songs of a life
John Taylor
Umberto Saba
Poetry and Prose
Selected and translated by Vincent Moleta
629 pp. Bridgetwon, Western Australia. Aeolian Press. Aus $80
1 875306 03 X
Last August, in Trieste, as I stood towards the back of the Libreria Antiquaria Umberto Saba and imagine the Italian poet writing there in the 1920s and 30s, I was gladdened by the thought that, from our English-language perspective, Saba has fared fairly well. Thanks to Carcanet and Sheep Meadow Press (in New York), we have two different selections of Saba’s poetry as well as his only novel, Ernesto. We have many examples of his touching Stories and Recollections. Although not all of his poems, which he gathered under the title Canzoniere (or Songbook), are translated, we do have the poet’s book-length self-commentary in the third person, History and Chronicle of the Songbook, which caracteristically begins: “Saba made many mistakes. But ignoring Saba’s poetry would be like ignoring the evidence of a natural phenomenon”.
Now, from Australia, comes a voluminous and beautifully illustrated Poetry and Prose, which offers new (and often first) translations of numerous poems, stories and prose pieces as well as of revelatory Letters and other significant texts. This extensively annotated tome not only fills countless gaps in the English reader’s knowledge of the poet, but also offers a full panorama of the man’s life, from his birth in Habsburg Trieste in 1883, through the dangerous war years (during which he hid in Florence because be was a Jew), to his death in a nursing home in Gorizia (near Trieste), in 1957. The book enables us properly to chart the evolution of Saba’s writing and to measure what the translator, Vincent Moleta, terms its “constant freshness and independence”.
The common denominator of Saba’s poems and stories is a “serenely despairing” candour. He was a gentle, tormented, proud “egoist”, as the title of a 1919 poem declares. Certainly his introspection, combined with his affectionate scrutiny of Triestine life, fit his own definition of poets as “egocentric. For them the external world exists: but it circulates exclusively around their person”. One of his most important collections is aptly called Autobiography (1924). Drawing on the scholarly Italian editions of Saba’s work, Moleta has included missives and manuscripts that reveal much about the poet’s friendships (notably with Eugenio Montale, Italo Svevo and Carlo Levi), about his “curious antiquarian shop / . . . in a quiet street of Trieste”, about his beloved hometown (“when I grew up / I married it to Italy for ever with my song”), and, of course, about his complex relationships with his two favourite “characters”, his wife Lina and his daughter Linuccia.
Original in conception, Poetry and Prose seamlessly combines literary and extra-literary material. Hence, a 1937 letter describing the impoverished poet Sandro Penna is followed by a letter from 1940 to Saba’s friend Nello Stock (who bad emigrated to New York). On the next page, we find a passage, from History and Chronicle of the Songbook, in which the poet comments on his poems from those years. This passage then introduces eight poems from Last Things (1935—43). After this selection comes a letter (1943) to his pubhisher, Giulio Einaudi in which be enquires about the publication of Last Things; and this document leads to the transcript of a clandestine radio broadcast, in 1944, about Heinrich Heine and Ugo Foscolo. Turn the page and there is a painting, by Vittore Cargnel, of Trieste central railway station in the rain. This painting faces Saba’s depressed 1944 letter to his daughter, whom he has not seen for years because he is in hiding. After another section from History and Chronicle of the Songbook appear two poems from the sequence “1944”.
This arrangement conjures up Saba the man, but it is important not to lose sight of Saba the poet, in Moleta’s smooth, accurate, yet not always sufficiently lyrical versions. It is probably impossible to suggest, in English, Saba’s discreet haunting music, with all those metered up Italian lines that end in open a’s and o”s. This is melodic, deceptively naive verse that in Montale’s words, “attains the lied as if without realising it”.
Above all, Moleta’s anthology amply illustrates the essential differences between Saba’s subtle literary approach to autobiography (which aspires to universality by means of a meticulous crafting of thought, feeling and perception) and the straightforward, spontaneous “autobiography” related by his letters and prose texts. Saba did not call his collected poems “Autobiografia”, as be might have done, but rather associated them with Petrarch’ s Canzoniere and Haine’s Buch der Lieder. “I have in my heart the song of a life”, be proclaims in ‘The Visit”, and the italics are his. Because of his masterful versification and his daftness at selecting just those personal specifics that foster resonance in us all, Saba is a much more enchanting autobiographer in his poems, and in his best stories, than in his letters. As a poet, he often strikes a perfect balance between confession and understatement, stylistic clarity and lyrical effusion, melancholy and sensual immediacy.