22-7-2002

 

Itália: reacções ao 11-09-2001

Oriana Fallaci e Umberto Eco

 

 

 

Estes dois pensadores italianos reagiram rapidamente em sentidos diferentes aos acontecimentos do 11-9-2001.

Oriana Fallaci vive nos USA onde é chamada “provocadora profissional”. O seu extenso artigo com o título “La rabbia e l’orgoglio”,  publicado em 29-9-2001, não é aqui reproduzido, visto que a autora e a sua editora (Corriere della Será) desencadearam uma enorme campanha judiciária contra os que copiaram o artigo para os seus sites, apesar de o livro entretanto publicado ter atingido o milhão de exemplares. Pelos vistos, não valeu de muito, porque continua ainda em muitos sites elencados a seguir.

Umberto Eco publicou o seu artigo que a seguir se reproduz no La Repubblica, de 5-10-2001.

 

 
 

 

Oriana Fallaci, La rabbia e l'orgoglio

publicado no Corriere della Sera de 29-9-2001

Pode ser lido nos sites seguintes:  O  O  O  O  O  O  O  O  O  O 

 

 

COMENTÁRIOS

Ma il dolore non ha una bandiera

di Dacia Maraini


Cara Oriana, ho sempre ammirato la tua sincerità, il tuo coraggio. Sono stata contenta di vedere di nuovo la tua firma sul Corriere : finalmente Oriana Fallaci torna a battagliare come è nel suo carattere, mi sono detta. Bentornata in Italia! Leggendo il tuo lungo e appassionato articolo però devo dirti che l’ammirazione per il tuo coraggio si è trasformata presto in allarme per la tua incoscienza. Proprio nel momento in cui tutti, dal Papa al presidente degli Stati Uniti, cercano di distinguere fra cultura islamica e terrorismo, proprio in questa circostanza così delicata e grave per il futuro del mondo, tu te la prendi con chi non è pronto a buttarsi in una guerra di religione. Per te chi distingue fra terrorismo e Islam è un ipocrita, un "fottuto" intellettuale, meschino e spocchioso. Con questo criterio anche il Papa sarebbe un ipocrita e che dire del presidente Bush, che altrove esalti con tanta commozione? Subito dopo l’eccidio Bush è andato a visitare una moschea, l’avrai visto anche tu. Cos’è, anche lui un politico che tu metti fra i farisei e gli impostori?

"Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite e non volete capire che qui è in atto una guerra di religione"... tu scrivi con invidiabile piglio militaresco. "Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio ma alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà...".

E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente, cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri...".

Oriana, lo so, non ti si può chiedere di ragionare con calma, ma santo iddio, ferma un momento la tua furia e guardati intorno. Proprio New York in cui hai scelto di vivere, è la città più multietnica che esista al mondo. Nei grattacieli, lo sai, sono morti 400 musulmani. Schiacciati, soffocati o bruciati vivi, per mano di alcuni criminali.

I primi a fare le spese del fanatismo religioso sono stati proprio loro, i figli di Allah: le tante ragazze sgozzate in Algeria per la semplice ragione che frequentavano una scuola, i tanti contadini che avevano la sola colpa di coltivare la terra e pretendere di vendere i loro prodotti in un mercato misto; le tante donne che in Afghanistan sono state lapidate perché scoperte a camminare con un burqa non abbastanza lungo o non abbastanza fitto davanti agli occhi.

Non sono stati gli islamici in generale a fare l’eccidio, come non sono stati gli italiani in generale a buttare la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano o alla stazione di Bologna, ma persone con nome e cognome. E sono queste persone che vanno scoperte e processate e condannate, come si è fatto dopo il nazismo con il processo di Norimberga. La guerra non è una risposta congrua contro il terrorismo, ma quello che servirebbe semmai è una grande operazione di polizia internazionale.

Certamente molti hanno risposto alle tue veementi parole, perché con la tua passione hai toccato un punto nevralgico, una memoria dolorosa: la paura dell’Islam ha radici lontane. C’è ancora un’eco in noi che suona con voce infantile: mamma li turchi!

"Quando è in ballo il destino dell’Occidente" tu scrivi, "la sopravvivenza della nostra civiltà va salvaguardata"! Non ti sembra di esagerare? "Se crolla l’America crolla l’Europa, crolla l’Occidente, crolliamo noi. ... E al posto delle campane, ci troviamo il muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella". È un allarmismo il tuo che capisco provenga da dolorose esperienze di inviata di guerra, ma finisce per resuscitare antichi odii e ancora più antiche paure assolutamente fuorvianti per riconoscere e colpire i reali colpevoli di questa strage.

Non puoi dire che in Italia "le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di fare saltare in aria la Cupola di San Pietro", perché non è vero. Proprio in questi giorni a Palermo, a Napoli ci sono state delle manifestazioni di arabi e di italiani per ricordare i morti uccisi dal terrorismo a Manhattan. Non puoi criminalizzare tante persone che lavorano, pregano e portano avanti con dignità una difficile vita di esilio. "Mi spieghi signor cavaliere, sono così incapaci i suoi poliziotti e carabinieri? Sono così coglioni i suoi servizi segreti? Sono così scemi i suoi funzionari?" insisti tu con aria da inquisitrice. "Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, lei teme di subire il solito ricatto razzista-razzista?".

Ma Oriana, se proprio il Paese che tu porti ad esempio non è stato capace di prevenire quell’orrore, perché pensi che avrebbe dovuto farlo il nostro? Il terrorismo è vile, vive di finzioni, si mimetizza, finge, inganna, si insinua, approfitta della buona fede e della libertà, che come giustamente dici, sono le grandi conquiste dei Paesi non dominati da una teocrazia. A me sembra che proprio l’enormità del progetto abbia impedito di vederlo e prevenirlo. L’idea di trasformare dei pacifici aerei di linea in micidiali ordigni di morte per migliaia di innocenti era difficile da immaginare. Gli anarchici che uccidevano un re o un capo di Stato sembrano, a guardarli oggi, dei bambini intenti a giocare coi soldatini. Eppure anche loro hanno cambiato il corso della storia. Ma gli anarchici si rivolgevano ad una persona precisa, che ritenevano colpevole di qualcosa di grave (assassinii, torture, abusi di potere, ecc.) mentre qui, in pieno periodo di pace, con l’inganno più sfrontato e imprevedibile, si è infierito contro degli innocenti assolutamente ignari del pericolo che incombeva su di loro. Uno sterminio di massa portato a termine con tanta sfrontatezza e tanta mostruosa gelata insensibilità è fuori da ogni previsione.

Masochisti tu dici "siamo masochisti perché, vogliamo farlo questo discorso sul contrasto fra le due culture?". E qui con foga impaziente sostieni che non vuoi nemmeno sentire parlare di due culture, perché le si metterebbero sullo stesso piano "come fossero due realtà parallele". E parti come un ciclone a fare quello che chiunque abbia una briciola di buon senso ti direbbe non si può fare: una comparazione fra civiltà. Non c’è bisogno di avere studiato antropologia (un’arte squisitamente europea, figlia di una cultura illuminista, attenta verso l’altro, il diverso), per sapere che ogni confronto fra culture è insensato. In quanto la civiltà è in movimento, non ha niente di monolitico, sfugge al concetto di bene e di male. Ogni cultura, anche la più apparentemente primitiva, vive di valori, di regole, con una sua cosmogonia e una sua rete di relazioni e di beni affettivi che non possono essere disprezzate mai, per nessuna ragione. Non è inferiore un congolese perché va scalzo a pescare i pesci con la lancia e muore di Aids a trent’anni. Qualcuno potrebbe raccontarci che una terra ricchissima, la sua, piena di diamanti e di rame, è stata devastata, sequestrata e rapinata da chi aveva soldi e fucili, lasciando quell’uomo all’età della pietra. Ogni essere umano fa parte di un sistema di conoscenze e di opinioni più o meno sfortunato, più o meno vincente, ma sempre degno di vivere dignitosamente nel rispetto altrui. C’è stato un periodo in cui la civiltà africana contava più di Roma e di Atene. Per non parlare dell’Islam, fra l’altro molto vicino a noi. "Siamo figli dello stesso Dio" ha detto umilmente papa Wojtyla. Per molti secoli l’Islam ha insegnato all’Europa come contare le stelle, come calcolare la distanza dei pianeti, come pensare e scrivere le operazioni matematiche.

Le civiltà salgono e scendono, hanno momenti di prosperità e momenti di stasi e di povertà. Ma certamente è folle attribuire ai poveri la colpa di essere tali. Anche perché spesso, in nome della superiorità di razza e di un Dio severo, proprio chi si sentiva dalla parte del Bene e della Verità ha derubato, confiscato, schiavizzato chi considerava "ignorante e selvaggio".

Lasciamo stare il discorso sulle civiltà. Dopo millenni di odii e di guerre per lo meno dovremmo avere imparato questo: che il dolore non ha bandiera. Che ciò a cui aspira la maggioranza delle persone è una convivenza pacifica fra individui di diversa cultura e diversa fede.

Proprio le torri di Manhattan visibilmente ci dicono una cosa sacrosanta: che la civiltà oggi è fatta di un crogiolo di culture diverse. In quelle torri ferite a morte convivevano civilmente persone di quaranta nazionalità. L’America non sarebbe quella che è se non avesse accolto nel suo seno i neri d’Africa, i musulmani d’oriente, i cinesi, i giapponesi, gli irlandesi, eccetera. L’America che tu ami non ha avuto paura di perdere la sua identità (eppure qualcuno che non voleva riconoscere dignità ai lavoratori stranieri c’era anche allora, erano i Sudisti, e per conquistare la libertà di pensiero e di tolleranza è stata fatta una guerra civile sanguinosissima). È la migliore America quella che ha vinto, l’America dell’accoglienza e della solidarietà. Io stessa in questi giorni lo sto provando sulla mia pelle cosa vuol dire multietnicità. Mia nipote, figlia di mia sorella e di un conosciuto pittore marocchino, ha sposato un irlandese americano da cui ha avuto un bambino che in questi giorni è stato battezzato nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma. Il bambino, Fosco Gabriele, porta in sé il seme di civiltà diverse: da grande parlerà l’inglese, l’arabo, l’italiano e il francese. Non per questo la civiltà occidentale sarà messa in pericolo.

Il fatto è che i Paesi ricchi e potenti possono permettersi delle libertà a cui i Paesi poveri spesso non hanno accesso: la libertà di parola, la libertà di pensiero, la libertà di istruzione, la libertà della democrazia e della ricerca scientifica e artistica. Sapere accogliere il diverso è una conquista, una forza, non una debolezza. Sono le nazioni che si sentono ai margini della storia, che hanno difficoltà di sopravvivenza, che affrontano il futuro con dolore e frustrazione a trovarsi impelagate nell’odio. Così come si odiano delle persone costrette a condividere una casa di trenta metri quadrati, che dispongono di una sola pagnotta per dieci bocche, che vedono morire i figli per malattie che altrove vengono curate e guarite. Essere ricchi e potenti non vuol dire automaticamente essere migliori. Ma certamente vuol dire avere più responsabilità. E mi sembra che in questo momento il Presidente Bush e i suoi consiglieri stiano dimostrando molta sensatezza nel distinguere, chiarire, prendere le distanze dall’odio appunto e dalla vendetta. Mi è sembrata anche ottima l’idea di andare a frugare nei conti di questi terroristi miliardari. È lì che si annidano le prove dell’orribile delitto pensato a freddo e commesso in nome di un Dio pazzo e crudele.

Tu parli degli emigrati che approdano sulle nostre coste con sommo disprezzo quasi fossero loro i responsabili dell’eccidio: "Più che di una emigrazione si è trattato di una invasione condotta all’insegna della clandestinità. Io non dimenticherò mai i comizi in cui l’anno scorso i clandestini riempirono le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini"... Strano, come ognuno veda quello che vuole vedere. Non so se guardando meglio, senza prevenzioni, avresti scorto quello che ho scorto io e tanti altri con me: la disperazione di chi aveva lasciato la casa e il paese per sfuggire ad una guerra feroce o per cercare un lavoro, anche il più umile, purché gli permettesse di sopravvivere. Certo in mezzo a loro sono scesi anche dei delinquenti, tali e quali a quelli di casa nostra. Ma guai a non distinguere i giusti dagli ingiusti! Si fa una grave offesa alla verità.

Non puoi non vedere che la maggioranza degli emigrati sono povera gente che non sa dove sbattere la testa. E scappano, come scappano gli afghani in questi giorni, dalle loro case, per paura delle bombe e della miseria. Non riesco proprio a capire come tu possa dire, con tanta baldanza: "peggio per loro"! "Se in alcuni Paesi le donne sono così stupide da accettare il chador, peggio per loro. Se sono così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andare dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se sono così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro"! Eppure tu sai benissimo che quelle donne rischiano la vita solo nel mostrare una mano nuda. Non è una scelta la loro ma una orribile imposizione da dittatura militare... Io sono stata in Afghanistan molto prima dei talebani e ho conosciuto donne che facevano l’avvocato, l’insegnante e non erano nascoste e infagottate come fantasmi. Ma tu non distingui: "Usama Bin Laden afferma che l’intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all’Islam, che con le buone o le cattive lui ci convertirà che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci". Perché non chiamarlo invece per quello che è: un atto di terrorismo fondamentalista che come tale va giudicato e combattuto? Se lo trasformi nella prima mossa di una guerra santa, fai solo il loro gioco. È una trappola, Oriana, in cui mi sembra che tu sia caduta con tutti e due i piedi, spinta dall’impetuosità travolgente e il coraggio - se mi permetti in questo caso un poco donchisciottesco - che ti sono propri.


In quanto ai kamikaze, tu dici di non avere pietà per loro. Ma non pensi che sia molto più spregevole e indegno di pietà chi li indottrina, chi li manda a morire, chi arriva a fargli credere che il loro corpo vale meno di una mina, meno di un fucile? Ho sentito una donna araba dire: però non mandano i propri figli a uccidere e morire: mandano i figli degli altri. Ecco chi è degno di disprezzo e di esecrazione: un gruppo di fanatici che trasforma degli esseri umani, dei ragazzini spesso adolescenti, in oggetti di morte e tutto per dimostrare il loro potere, la loro ideologia, la loro fede, il loro fanatismo. Ma quale Dio può essere tanto sanguinario e nemico dell’essere umano da chiedere tali sacrifici?


Tu dici che la tua ira è esplosa quando hai saputo che in Italia, come in Palestina la gente ha gioito per l’attentato terroristico alle due torri di Manhattan. Sei stata male informata: posso garantirti che nessuno in Italia si è rallegrato per l’orribile scempio. Non si è vista una sola immagine di festa o di compiacimento, né in televisione né per strada né altrove. Quello che si è visto è stato solo stupore, paura, indignazione, orrore. Tutti abbiamo fissato lo sguardo su quell’obbrobrio, tutti abbiamo osservato impotenti, con le lagrime agli occhi, quei corpi che si sporgevano disperati lungo le pareti dei grattacieli, incerti se gettarsi di sotto o affrontare una morte per fuoco: bruciati vivi, innocenti e giovani. Una morte di massa che ha sconvolto le nostre immaginazioni e le nostre aspettative per il futuro. Ti ripeto che nessuno in Italia ha esultato. D’altronde in quelle torri c’erano centinaia di italiani. Che sono stati ridotti a pezzi e possiamo chiamare fortunati quelli che sono morti subito, perché alcuni hanno languito sotto le macerie provando disperatamente a telefonare a casa, - come dimenticare quelle voci che nell’orrore dello strazio mandavano coraggiosamente messaggi di amore ai propri cari? - ma come individuarli? come tirarli fuori? A volte noi cerchiamo di scrollarci di dosso il peso intollerabile delle sofferenze altrui. E chiudiamo gli occhi. Ma quando la morte diventa una rappresentazione in diretta, non puoi serrare le palpebre, non puoi voltare le spalle: sei coinvolto fino in fondo, muori un poco anche tu. E noi siamo tutti un poco morti, lanciandoci nel vuoto come quei poveri infelici che abbiamo visto agitarsi per tanti lunghissimi momenti, prima di sfracellarsi al suolo.


"Il terrorismo è l’assassinio dell’innocente", scrive Salman Rushdie. Questa volta si è trattato di un assassinio di massa. "Giustificare una simile atrocità biasimando la politica degli Stati Uniti significa ricusare l’idea stessa della moralità: che gli individui siano responsabili delle loro azioni!". Il fondamentalista terrorista è contro la libertà di parola, contro il voto universale, contro gli stati democratici, contro i diritti delle donne, contro il pluralismo... "Ma questi sono tiranni non musulmani!". Non ti sembrano parole sagge? Fra l’altro l’Islam ha sempre avuto parole dure contro il suicidio, ci ricorda sempre Rushdie, "un gesto che il suicida è condannato a ripetere per tutta l’eternità". Bisognerebbe fare una analisi, suggerisce lo scrittore per capire come mai tanti fedeli siano attirati da questa forma di disobbedienza alle parole di Maometto. "Così come l’Occidente deve fare i conti con i suoi Unabomber, (con i suoi terroristi irlandesi o baschi), l’Islam dovrebbe fare i conti con i suoi Bin Laden", conclude Rushdie e mi sembrano parole precise e acute. La schizofrenia, il delirio di onnipotenza, l’uso perverso della tecnologia, l’accumulo maniacale del denaro, non sono indicativi né della religione cattolica né della religione musulmana, anche se alcuni individui affamati di successo e di potere hanno adoperato le due fedi per imporre le proprie ragioni di morte e di terrore. Trattiamoli come tali, processiamoli pubblicamente, ma evitiamo le guerre che colpiscono sempre e soprattutto gli innocenti.

Un caro saluto da Dacia Maraini.

5 ottobre 2001

 

 

 

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Un uomo di nome Oriana

Commento all’articolo “La rabbia e l'orgoglio"

Non so se l’Oriana Fallaci che conoscevo io, cioè di cui ho letto tutti i libri e molti articoli, vivendo troppi anni in America si sia lasciata frastornare dall’American style of life e relativo patriottismo fino al punto di perdere di vista completamente il senso critico e la misura che la distinguevano da tanti giornalisti di poco valore, oppure se sia l’età, la paura vissuta a Manhattan o cos’altro. 

So solo che ciò che ha scritto nel suo sfogo mi sembra molto discutibile. 

La mia impressione è che abbia scritto l'articolo d'impulso, sotto l'effetto catastrofico vissuto da vicino, senza collegare la mente alla penna.

Ho anche visto che molte lettere giunte al Corriere subito dopo la pubblicazione esprimevano sentimenti diametralmente opposti: chi la lodava come avesse parlato un oracolo e chi la rinnegava amaramente, pur avendola (come me) amata in passato per i suoi scritti e le sue passioni.

Qualcuno ha anche detto che l'effetto "dirompente" era proprio ciò che lei voleva ottenere: dare una scossa agli italiani. A parte il fatto che a me è sembrato che gli italiani (salvo la solita folta schiera di apatici a tutto) si siano già scossi da soli, senza bisogno d'aiuto, forse c'erano modi meno oltraggiosi di mandare un messaggio.

Sarà dunque cambiata lei o siamo cambiati noi? Non lo so, ma provo a evidenziare alcuni passi del suo scritto per introdurvi alcuni miei commenti.

Lo scritto della Fallaci comunque è misteriosamente scomparso dal sito Web del Corriere, con la spiegazione che (guarda caso!) uscirà presto un suo libro nel quale verrà riportato per intero anche il suo articolo.

[due giorni dopo la mia lettera il testo della Fallaci è riapparso sul Corriere]

La rabbia di Oriana, dunque, si trasformerà presto in business. Non c'è da stupirsi che altri ci stiano già facendo un film sulla tragedia delle torri.

L’America insegna, non c’è che dire!

I business- men sanno trasformare qualsiasi cosa in oro, anche i morti. Vorrei essere smentito da una dichiarazione che l'intero ricavato dalla vendita del prossimo libro fosse devoluto ai parenti delle vittime. Questo sarebbe l'unico modo per espiare la colpa di trasformare in "articolo di vendita" un'immane tragedia.

Noi italiani siamo strana gente. Denigratori assoluti di noi stessi e del nostro paese, ma guai a sentirci dire certe cose dall'estero. Se poi è una italiana che ce le dice, stando a New York, ci da doppiamente fastidio.

Questo l'Oriana poteva anche immaginarlo, visto che pensa di conoscerci bene.

L'articolo è lunghissimo e quindi ho preso solo qualche frase a mio avviso particolarmente stonata, tralasciando tutte le considerazioni Berlusconiane sulla superiorità della società Occidentale rispetto al mondo musulmano.

Queste analisi fatte da una Occidentale lasciano il tempo che trovano. Solo un osservatore marziano potrebbe essere ritenuto imparziale.

Ecco i commenti. Le frasi in corsivo sono estratte esattamente dal testo originale dell'articolo.

Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: "Bene. Agli americani gli sta bene".

Non ho motivo di dubitarne che sia successo. Forse sono gli stessi che dicevano le stesse cose quando gli americani cercavano di spazzare dalla faccia della terra i Vietcong, o quando bombardavano l’Iraq, o quando hanno realmente spazzato dalla terra gli abitanti di due città giapponesi, o contro l'intera popolazione serba, chissà. Tu, Oriana, che hai tanto vissuto non dovresti stupirti che esistano uomini cinici e imbecilli fino a questo punto. Ne avrai incontrati molti e non saranno stati tutti italiani, spero?

 Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita!

La seconda guerra mondiale l’avrai sicuramente subita, visto che eri molto giovane, come me, ma nelle altre non ci sei andata per libera scelta professionale? Se non volevi farti "seviziare" dalle guerre potevi girarci al largo, dedicandoti magari alla cronaca rosa.

  Non lo conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?). Gli americani non lo diranno mai. Per non sottolineare l'intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi.

Quindi Giuliani, col suo conteggio giornaliero attorno ai seimila dispersi sta mentendo? Se fosse vero che gli americani ci ingannano sul numero dei loro morti non mi sembrerebbe molto rispettoso verso chi ha perso qualcuno lì sotto. Si potrebbe pensare che se ne vergognino al punto di non volere ammettere una così grave perdita. E’ orgoglio o presunzione? Come se facesse differenza dire quarantamila piuttosto che seimila! Non è uguale per loro la catastrofe? Ragionano a numeri fino a questo punto? Non ci credo, Oriana. I dispersi non dovrebbero essere molti di più di quelli che un coscienzioso sindaco, che tu esalti nel tuo articolo, sta dichiarando, sulla base delle denunce che sicuramente ha ricevuto. Ma i giornalisti è risaputo che i numeri li girano come pare a loro, per dare effetto a ciò che scrivono o semplicemente perchè hanno fatto il liceo classico e studiato poco la matematica. 


Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di opinione che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su di lui espressi nel mio libro "Intervista con la storia". Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla.

Non ti sorge il dubbio che forse ad Arafat dei tuoi perdoni non gliene freghi nulla? Che abbia ben più gravi questioni a cui dedicarsi, prima tra tutte quella di continuare a salvare la pelle da cinquant'anni a questa parte, visto che il suo stile poco terroristico gli ha creato parecchi nemici proprio in patria? Sarà anche probabilmente un "cerchiobottista", ma se non fosse così oggi riposerebbe in pace e non sarebbe riuscito a tenere unito (con lo sputo) il paese più critico del mondo.


Preferisco parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano all'America. Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d'Europa.

Il terrorismo non ha confini e potrebbe colpire ovunque, non solo in paesi aperti e democratici, lo insegna la storia che tu conosci bene. Solo gli americani s'illudevano d'essere invulnerabili. La tragedia sarebbe forse stata evitabile con un po' meno di tracotanza, superbia, ottusaggine dei servizi segreti, come dici anche tu. Quei servizi segreti che forse usavano Echelon più per curiosare nel mondo degli affari finanziari che dedicarsi al controllo delle comunicazioni, pur essendo stati più volte avvisati del rischio di atti terroristici nella loro amata patria.

 Poiché l'America è il Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell'America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità.

Accidenti che elogio solenne, Oriana. Sembri più americana tu di John Wayne! Perchè dal tuo punto di vista gli aggettivi che sprechi significano pregi, vero? Non li vedo però abbinati ad altri aggettivi indispensabili in una valutazione etica e morale di un paese. Aggettivi come onesto, generoso, tollerante, pacifista, ecc. Sarà una svista? O sono valori che non producono ricchezza, quindi dispersivi?

 Nessuno (ai musulmani in America) gli proibisce d'iscriversi a un'Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica.

Be', magari con la chimica e biologia nei ritagli di tempo ci si può fare anche altro, non credi? Speri che cambi nel senso che d'ora in poi solo la "pura razza americana" manterrà certi diritti? O che Bush butterà fuori dagli USA tutti i musulmani? Sarebbe da capire meglio questo punto di vista.

 Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e l'hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia.

Se la "forza" di un paese è nelle sue case più alte che altrove e nel suo grande monumento di guerra (con la misera fine che gli è toccata al Pentagono, oltre tutto!) be' Oriana, forse sto anche perdendo tempo a ribattere i tuoi miseri argomenti. Abbiamo sicuramente metri di valutazione molto diversi, troppo diversi. Fermo restando che altri sicuramente usano il tuo stesso sistema di misura: armamenti + soldi. La grandezza di un paese si può misurare "anche" così. Punti di vista. Mi piace pensare che magari non tutti gli italiani (ed europei) si siano già ridotti a questo sistema metrico.

Quei grattacieli impressionanti, così alti, così belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi

Ti sta dando di volta il cervello, non ho dubbi, Oriana! O stai sfottendo e noi ci stiamo cascando da fessi? Mah. Mi sembra persino incredibile che una fiorentina sbavi per un grattacielo più che per un palazzo del Brunelleschi.!

  (E non dimenticare che la guerra aerea l'hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino all'isteria).

No Oriana. Te lo promettiamo tutti in coro: NON LO DIMENTICHIAMO! Anzi me ne ricordo molto bene quando mi omaggiavano delle loro sacre bombe ed io terrorizzato me ne stavo in un rifugio puzzolente con l'acqua alle caviglie! Tranquilla, abbiamo preso nota.

Quel Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere.

Sacrosanta verità, purtroppo. Oggi, poi, quel Pentagono sventrato fa ancora più paura!

il reverendo Usama Bin Laden... Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni d'una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore. La demolizione è una specialità americana.

Sappiamo anche questo.

Nonostante i difetti che le vengono continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma quelli dell’Europa e in particolare dell’Italia sono ancora più gravi), l'America è un paese che ha grosse cose da insegnarci.

Ce le insegna tutti i giorni, è vero. Quanta cultura da quel grande paese a noi poveri ignoranti. Quanta generosità ad insegnare. Quanti meravigliosi film, educativi. Rambo, Inferno di cristallo, Pulp fiction, ecc. ecc. ne potrei citare migliaia. Dalle meravigliose serie sui valorosi cavalleggeri che sterminavano quelle bestie di indiani e noi ragazzini ad applaudire. Mezzo secolo di educazione. Ci ha cambiato, infatti. Non del tutto magari. Qualche piccolo difetto europeo c'è rimasto, ma vedrai che impareremo e rimedieremo.

  (il sindaco Giuliani) ...Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità.

Magari in qualche "bischerata" il tempo ce lo ha perso in passato, ma pazienza. Sorvoliamo.

Sembrava un generale che partecipa di persona alla battaglia. Un soldato che si lancia all'attacco con la baionetta. "Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!" Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui.

Ma t'è proprio rimasta la fissa della guerra, eh? Vedi baionette anche al posto di una tristissima lista di dispersi!

Quanto all'ammirevole capacità di unirsi, alla compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie e al nemico,

E dai ancora col marziale!

Così, quando ho visto bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati, ... sono rimasta di stucco.

Un bianco che abbraccia un nero ti lascia di stucco? Perchè? Cosa c'è di strano, secondo te?

 E lo stesso quando il Congresso ha votato all'unanimità d'accettare la guerra, punire i responsabili. Ah, se l'Italia imparasse questa lezione! È un Paese così diviso, l'Italia.

Speriamo resti diviso ancora per molto, allora, il nostro paese. Speriamo che al prossimo terremoto o alluvione o vulcano o smottamento Cossutta non abbracci Berlusconi. Speriamo di tenere dentro di noi la paura, come abbiamo fatto in mille disgrazie capitate al nostro paese e che, senza berrettino e bandierine, le nostre genti hanno affrontato e superato con estrema dignità, malgrado qualche politico corrotto di turno e gli scarsi mezzi messi a disposizione. Ma quelli, si sa, sono una esclusiva tutta italiana. In America i politici non sono mai corrotti, vero??

             (l'Italia, paese) ...Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali!

"Meschinerie tribali"? Oriana, ci stai prendendo per il culo? Sei andata ad abitare a New York per dire liberamente e democraticamente queste stronzate? Perchè non vieni a dircele di persona, magari in parlamento, pardon, nella tenda del capo tribù?

Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l'opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell'opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati.

A parte che di camerati in Italia non ce ne sono più da un pezzo, è vero quello che dici: andrebbe proprio così. Cercherebbero tutti di farsene una ragione e si accuserebbero. Scontro dialettico. Vinca il più forte. Ma mai e poi mai andrebbero a stringersi alla sottana di Ciampi! Almeno...spero!! C'è rimasta un po' di dignità, credimi. Si fa fatica da queste parti a credere che quello che veniva fino al 10 settembre definito un cretino, che non era neppure riuscito ad avere un nome tutto suo, tutt'a un tratto diventi il migliore presidente degli Stati Uniti. Non ci quadra.

E personalmente non mi quadra che un presidente che ha dimostrato subito di volersene fregare dei problemi esterni agli Stati Uniti, sia lo stesso che ha poi subito il più grave attacco terroristico e nessuno abbia collegato le due cose. Tu pensa che io mi sarei aspettato le sue dimissioni. Ma sarò imbecille?!

Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L'avete visti o no? Mentre Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine americane, alzare il pugno chiuso, ruggire: "Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!". In un paese totalitario avrei pensato: "Ma guarda come l'ha organizzata bene il Potere!". In America, no. In America queste cose non le organizzi. Non le gestisci, non le comandi.

Ce l'hanno nel DNA. Noi (stupidi trogloditi italiani) lo chiameremmo fanatismo spontaneo, pensa un pò! Solo allo stadio gli italiani non si sentono ridicoli a sventolare una bandierina. Ma, si sa, quello è un gioco.

Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno glielo ordinasse.

Dopo la conquista del West questa è un'altra tappa storica evolutiva. Uno che riesce ad essere tanto autonomo da decidere col suo cervello di sventolare una bandierina. Grandioso. 

Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare.

Fai bene Oriana a non immaginarlo. Primo perchè non è sventolando una bandierina che si risolvono i problemi e si cavano i morti dalle macerie e poi perchè ci sentiremmo ridicoli, soprattutto in quella situazione. Già ci tocca andare in giro con le Nike ai piedi (che poi puzzano), lasciaci almeno tenere magari nel cassetto la nostra bandierina o forse solo nel cuore, che è meglio. Poi oggi stiamo stirando quella europea, sai? Quella blu con tante stelline. Ma non sventoleremo mai neppure quella. Abbiamo superato il patriottismo. Per questo non amiamo le guerre. Le patrie creano confini, barriere, ostacoli e a noi piace molto non averne più. Siamo indisciplinati, noi. Non ci facciamo più comandare facilmente, noi. Siamo disillusi e scettici. Ci piace sempre discutere, però. Ma senza colt nella fondina.

  (Bossi) ...Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra Firenze e Siena.

Tranquilla, Oriana. I toscani si sono sempre scannati anche prima che nascesse Bossi, lo sai, no?

Ma poi vanno a tavola tutti insieme e ci bevono sopra un buon Chianti.

 
Il fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera.

Questa teoria che l'America sia da invidiare senza pensare al Dio dollaro la dovresti spiegare molto meglio, perchè a noi non ci risulta un gran chè di invidiabile, vista anche l'alta affluenza nei lettini degli psicoanalisti e le stragi nelle scuole e tutti i maleseri di cui soffrono molti dei suoi abitanti.

 Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea della Libertà, anzi della libertà sposata all'idea di uguaglianza.

Uguaglianza tra nordisti e sudisti? Uguaglianza tra bianchi e neri? Mi devo ripassare la storia.

Certo che quando c'è bisogno d'una nuova patria basta attraversare l'Atlantico, fare fuori qualche indigeno e piantare una bandierina. Strano concetto quello dell'uguaglianza in America!

 È un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera?

No, non ho idea. Non sono ancora riuscito ad imparare bene i duemila anni di storia che abbiamo alle spalle noi italiani. Ho sempre invidiato gli studenti americani, per le lezioni di storia. Noi disgraziati che dobbiamo andare all'indietro così tanto!

 Bè... Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata all'uguaglianza.

Non considerando "umani" gli indigeni che già abitavano in America tutto quadra. La ghigliottina, poi, che barbarie! Ma vuoi mettere la grandezza tecnologica degli americani che ancora oggi usano la sedia elettrica?

 La Dichiarazione d'Indipendenza. "We hold these Truths to be self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti v'è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i governi...".

Uomini tutti uguali? Ma mi faccia il piacere, direbbe il povero Totò. Dividi i sogni e la propaganda dalla realtà, Oriana. E rileggiti quello che hai scritto più avanti sulla uguaglianza dei popoli. Partendo dai tuoi sprezzanti quanto generici giudizi sui musulmani.

Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata. E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina toccano il cielo con un dito.

(l'unico dito che la bontà divina dei soldati americani gli ha lasciato?)

Be' in Vietnam di corna USA credo ce ne siano rimaste tante, però, no?

Il guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una mano.

Ad eliminarli tutti? Potete contare solo su Tony Blair, per questo. Io spero che l'Europa non venga mai confusa con l'America. Che vuoi che ti dica Oriana, a noi sparare non piace più, neanche alle anatre. Certo sono incazzati di brutto i figli di Allah, ma non tutti. E noi, mentre ce la facciamo sotto, cercheremo di muoverci su altri fronti, quelli nei quali magari ce la caviamo meglio, siamo meno elefantiaci, meno ottusi e meno falchi. Lasciamo volentieri gli "sporchi lavori" agli USA (stavo per dire "a voi", mettendoti tra loro!). Come sempre. Ma se anche i nostri soldati saranno chiamati a combattere stai tranquilla che faranno il loro dovere, come sempre e senza tante smargiassate, all'italiana insomma, OK?


Sto parlando alle persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza e nel dubbio.

Per me fa un gran bene cullarsi nei dubbi ed esercitare prudenza. Solo i caproni partono a testa bassa senza ragionare.

"Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando loro disprezzano la nostra?

Il senso di non essere come loro, se non altro. Il rispetto Oriana. Poi se c'è un pazzo terrorista con il suo manipolo di fanatici, basterebbe prenderlo e processarlo. Corri troppo con le guerre sante. Stai calmina. I musulmani sono più di un miliardo. Sta in gran parte a noi non farli incazzare proprio tutti.

 E a veder accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi. Mi pareva d'essere nel Medioevo, e dicevo: "I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio".

Infatti: hanno ottenuto un milione di morti afgani, più i loro quindicimila soldati russi morti pure loro, hanno sfasciato il loro impero e tutto è rimasto come prima! Grazie Russia per essere andata a scornarti in afganistan. Abbiamo risolto un problema senza muoverci. Il problema russo, non quello afgano. Dopo la sconfitta infatti anche gli americani hanno perso interesse all'Afganistan, lasciandoli nel loro brodo e con le loro armi. E ci stanno giocando ancora con quelle armi. Ora c'è da andare a completare un lavoro piantato a metà e non sarà facile.

 E pur di fare i progressisti applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura dell’Unione Sovietica riempivan di armi l'eroico-popolo-afghano. Addestravano i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden.

Vedi che le sai le cose?

 Sto dicendoti che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io l'Italia non gliela regalo.

Come spieghi che in America, invece, vivono pacificamente 24 milioni di musulmani? Vuoi dire che loro gliel'hanno regalata la loro patria? Più fessi di noi? Stai negando la possibilità di convivenza o stai facendo macroscopiche generalizzazioni? Che ci sia un minimo rischio d'essere condizionati dalla loro religione posso anche crederlo, ma ti sembra possibile oggi evitare che la gente si muova? Se è un paese libero l'America, perchè non vorresti che lo fosse anche l'Italia? Fermo restando che il problema troverebbe comunque migliore soluzione se le popolazioni potessero vivere più dignitosamente (o almeno sopravvivere) nei loro rispettivi paesi d'origine. Chi si sposta è quasi sempre costretto dal bisogno, non dalla voglia d'abbandonare il suolo natio. E ciò vale per i neri della Costa d'Avorio, come per gli algerini, albanesi, curdi e via dicendo.


E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità.

La "tua" verità. 

Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade.

Calma, Oriana. Quell'Italia è al suo posto. I suoi soldati, forse non fanatici come quelli islamici caricati a molla da Bin Laden o americani, fanno il loro dovere all'estero, da anni e si sono fatti stimare da mezzo mondo. Proprio perchè sono soldati "di fuori", ma esseri umani "di dentro". 

Mi sa che ti stai perdendo qualche pezzo di storia tra i luccicanti negozi della Quinta strada. Vieni più spesso in Italia, Oriana. Ti troverai bene. Ti ritroverai a casa. Con tutti quei pregi e difetti che hanno gli adorabili italiani. Che tutto sono, ma non guerrafondai, non interventisti a tutti i costi, non cow boy e neppure kamikaze e nemmeno santoni. Gente tranquilla e civile, fanatica solo di calcio e telefonini. Cose innocue.

E se tra una campana e l'altra magari senti il canto di un Muezzin, porta pazienza. Pare che anche loro siano esseri umani e trattati con rispetto ed educazione sappiano comportarsi civilmente.
A volte anche più di noi.

Enrico Spelta

3 ottobre 2001

 

Celle par qui le scandale frappe l'Italie

• LE MONDE | 29.05.02 | 13h17

Rome de notre correspondante

Célèbre pour ses questions insolentes aux puissants, Oriana Falacci avait cessé ses collaborations aux grands titres de la planète depuis une dizaine d'années. Les attentats du 11 septembre l'ont surprise, en pleine retraite, à New York. "La" Fallaci, comme on la nomme en Italie, en connaît long sur les révolutions islamiques passées. Elle avait en effet été l'une des rares femmes à interviewer Khomeiny en 1979. L'entretien s'était alors presque terminé dans la bagarre : interrogeant son interlocuteur sur le sort des femmes, elle avait joint le geste à la parole sacrilège en ôtant son tchador.Le 11 septembre donc, la septuagénaire vit en témoin direct le drame qui frappe l'Amérique. Peu après, fin septembre, le directeur du quotidien italien Il Corriere della Sera sollicite Oriana Fallaci, lui demandant un article sur l'événement. Elle accepte, mais à condition que son papier soit publié intégralement, et sans aucune correction. Marché conclu.

La publication de ce texte, qui porte le titre du livre à venir, déclenche aussitôt un scandale. Le ministre de la culture Giuliano Urbani défend énergiquement "la grande Fallaci", alors que d'autres intellectuels la dénoncent, tels Dacia Maraini et Tiziano Terzani, qui lui-même sort un livre contraire. La gauche se déchaîne contre les thèses "racistes" de la journaliste. Silvio Berlusconi vient lui-même de susciter une autre polémique en déclarant en substance que la civilisation de l'Occident est supérieure à celle de l'islam.

En grand secret, les éditions Rizzoli préparent la sortie d'un livre pour la veille de Noël : auteur, Oriana Fallaci, titre La Rage et l'orgueil. Dès sa sortie, l'ouvrage grimpe en tête des ventes, toutes catégories confondues, atteignant très vite le million d'exemplaires vendus. Le 12 avril, l'hebdomadaire Panorama (qui appartient à Silvio Berlusconi) relance la polémique en publiant un violent pamphlet d'Oriana Fallaci à propos de l'antisémitisme.

L'EGLISE MISE EN CAUSE

Chaque paragraphe commence par : "Je trouve honteux". L'auteur s'en prend à la gauche et à l'Eglise pour leur attitude face au conflit israélo-palestinien. La journaliste dénonce "la présence d'individus déguisés en kamikazes dans la manifestation propalestinienne organisée à Rome" quelques jours auparavant, et pêle-mêle, les actes antisémites commis en France, etc.

Inexorable, elle poursuit : "Je trouve honteux que l'Eglise catholique ait permis à un évêque logé au Vatican de participer à une manifestation à Rome au cours de laquelle il a dans un mégaphone remercié au nom de Dieu les kamikazes qui ont massacré des juifs", faisant référence à l'évêque syrien Hilarion Capucci, chargé de l'assistance pastorale des Grecs catholiques d'Europe. Les réactions ne se font pas attendre. Le quotidien du Vatican, L'Osservatore romano proteste.

Pour le représentant de l'OLP à Rome, Nemer Hammad, "c'est une honte que Panorama publie un article comme celui d'Oriana Fallaci", pour le leader des Verts, Alfonso Pecorato Scanio, "ses mots n'aident pas au dialogue et ne réduisent pas le danger de l'antisémitisme", alors que selon Franco Giordano, chef du groupe des députés de Refondation communiste, "ces paroles sont honteuses, parce qu'elles alimentent la haine entre les religions". En revanche, le président de l'Union des communautés hébraïques en Italie, Amos Luzzato, réagit favorablement à la parution de l'article, tout comme le ministre de la défense, Antonio Martino.

Profitant de la tension, Rizzoli réédite l'ouvrage en y ajoutant l'intégrale du nouveau pamphlet, ainsi qu'un CD où l'auteur dit elle-même son texte. Dernier épisode, qui n'est pas le moins significatif : l'Observatoire européen sur le racisme, de Bruxelles, le 23 mai, dans un rapport sur les tendances anti-islamiques dans l'UE après le 11 septembre, déplore "le ton violent et insultant" de l'article publié fin septembre par Oriana Fallaci, et "son contenu explicitement anti-musulman, anti-arabe et anti-immigré". Ainsi, Fallaci se retrouve-t-elle au banc des accusés aux côtés d'Umberto Bossi, le leader de la Ligue du Nord.

Danielle Rouard

• ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 30.05.02

 


Le brûlot d'Oriana Fallaci contre les fils d'Allah

• LE MONDE | 29.05.02 | 11h24

La sortie , en Italie, de La Rage et l'Orgueil d'Oriana Fallaci (Plon, 196 p., 15 € ) et le scandale qui s'en est suivi ont dénaturé le débat sur le 11 septembre et ses conséquences. Dans son livre, la fameuse journaliste transalpine mélange sans précautions l'islam, le terrorisme et la présence des musulmans en Europe pour faire des attentats de New York le révélateur par excellence de la civilisation musulmane dans son essence. Celle-ci serait, selon Mme Fallaci, tout entière tournée vers la destruction et le pillage de l'Occident.

La rage que lui a inspirée l'attaque sur les tours jumelles, le spectacle des gens qui se jetaient dans le vide "en agitant les bras et les jambes, en nageant dans l'air", avant de "s'écraser comme des pierres", nous valent des pages très fortes, qui témoignent du caractère unique de l'horreur qui s'est abattue ce jour-là sur le monde, et rappellent qu'aucune impunité ne doit être accordée à ceux qui ont commis ce crime contre l'humanité.

Mais comment peut-on en assigner la responsabilité collective, sans autre forme de procès, à tous les "fils d'Allah" - selon l'expression de Mme Fallaci – dépeints, principalement au travers des immigrés en Europe, comme des délinquants, violeurs, prostituées, sidaïques, qui "urinent dans les baptistères" et "se multiplient comme les rats" ?

CLICHÉS CONNUS

Critique-t-on ces simplifications (où l'on retrouve les clichés sur le juif dans la littérature antisémite ou sur l'Italien dans la presse française extrémiste d'avant-guerre), et l'on se voit qualifié de pauvre idiot terrorisé par le "politiquement correct", d'aveugle ou de complice. Le temps n'est plus à la réflexion, mais aux "coups de pieds dans les couilles", dont l'auteur nous informe au fil des pages qu'elle a gratifié régulièrement les immigrés qui l'agressent en Italie.

La Rage et l'Orgueil pose toutes sortes de problèmes préoccupants pour le type de débats que nos sociétés peuvent mener sur des questions aussi graves que le 11 septembre et ses conséquences – comme sur l'immigration, l'insécurité et leur représentation. Son extraordinaire succès dans les péninsules Italienne et Ibérique, son inscription programmée dans la liste des best-sellers, au côté d'un autre livre au contenu consternant – L'Incroyable Imposture, d'un certain Thierry Meyssan – augurent mal du niveau de la réflexion collective face à l'un des défis les plus graves auxquels est confrontée la civilisation en ce début de millénaire.

Une époque qui érige Mme Fallaci et autres M. Meyssan en phares de l'intelligence manifeste le désarroi de la pensée et l'incapacité des intellectuels : c'est une sorte de victoire pour les fanatiques, pour Oussama Ben Laden et consorts. Sans doute le succès est-il imputable à ce que ces ouvrages révèlent par leur démarche même de la psychologie des foules. L'amalgame et la confusion entre le terroriste et l'immigré, les attentats du World Trade Center et l'insécurité sont à la racine du livre. Ils expriment, sur un mode viscéral et subjectif qui se veut explicitement l'ennemi de toute réflexion (bonne pour les aveugles et autres complices politiquement corrects), ce sentiment de peur que traduit, dans le secret des isoloirs, l'inflation des votes pour l'extrême droite en Europe et l'adhésion massive au manichéisme de la "guerre contre la terreur" en Amérique. De ce point de vue, il faut prendre ce type de cri au sérieux, en faire une lecture sociologique.

COMPRENDRE LE POPULISME

Cela peut nous aider à démonter les ressorts du populisme d'aujourd'hui, à comprendre comment Ben Laden a réussi à donner son nom et son icône à la peur, à monopoliser l'univers de l'image télévisuelle, à polariser la figure respective du mal et du bien de laquelle hommes politiques réactionnaires comme activistes islamistes radicaux font leur miel. Arrivent ces jours-ci du Moyen-Orient, via les sites Internet, la presse et les tracts, de longues listes de "produits juifs" (de la lessive aux sodas et aux pièces détachées) qu'il est ordonné aux bons musulmans de boycotter. Un délire populiste répond à l'autre. Mais l'ampleur de la catastrophe qui a commencé le 11 septembre mérite tout de même un débat d'une autre gravité.

C'est le rôle civique des intellectuels de sortir de leurs cénacles pour prendre le risque, sans tabou ni complaisance, du débat public. Sans quoi il est vain de déplorer que la démagogie rafle la mise, inonde le marché de l'édition, et flatte les instincts au lieu d'aiguiser l'esprit. C'est aussi le rôle des médias d'avoir des exigences à la hauteur des défis de société majeurs auxquels nous sommes confrontés : tout l'automne, le petit écran a fait défiler en boucle des experts instantanés gorgés de certitudes factices, au détriment de la réflexion en profondeur sur le séisme que venait de subir le monde. Puis, tout le printemps, il a trait l'inépuisable vache à lait électorale de l'insécurité et de l'immigration.

Rendons grâces au livre de Mme Fallaci de boucler la boucle, et espérons que ses succès éditoriaux réveilleront les énergies civiques des intellectuels, comme les succès électoraux de Jean-Marie Le Pen le 21 avril ont réveillé le 5 mai les énergies civiques de la société française.

Gilles Kepel

• ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 30.05.02

A revolta de Oriana

 Um explosivo e controverso livro sobre o radicalismo islâmico

 LA RABBIA E L’ORGOGLIO

 de Oriana Fallaci  

 (Rizzoli, 2002, 166 págs., €17,06)

 CARTAZ,  29-6-2002

José Gabriel Viegas

Admirada e detestada, imitada e vilipendiada, Oriana Fallaci foi uma das mais emblemáticas jornalistas dos anos 70 do século XX. Ousada e provocadora até ao extremo, deixou um rasto de controvérsias da guerra do Vietname e do caos libanês até à Lisboa do «Verão Quente» de 1975 - com uma famosa e polémica entrevista a Álvaro Cunhal. Conheceu, entrevistou e, frequentemente, fez «escorregar» as mais importantes figuras políticas da época. Designadamente do mundo árabe-islâmico, como Khaddafi, Khomeini e Arafat. Aliás, é um universo que conhece bem, do Irão ao Norte de África, e que agora desafia com o seu explosivo livro La Rabbia e L'Orgoglio («A Raiva e o Orgulho»).

Publicado em Itália no final de 2001, o livro vendeu mais de um milhão de exemplares. E provocou uma avalanche de protestos, de indignações, de ameaças de morte e alguns processos. Em França, o circunspecto «Le Monde» chegou a sugerir ao presidente da Liga contra o Racismo e o Anti-semitismo (LICRA) uma condenação pública da obra. Aquando da recente publicação da edição francesa do livro, pela Plon, a LICRA e também a Liga dos Direitos Humanos associaram-se ao processo movido contra a escritora pelo movimento anti-racista MRAP.

Para alguns, como o advogado do MRAP, Anceme Taleb, e numerosos movimentos da esquerda europeia mais radical ou sentimentalmente pró-árabe, este livro constitui um incitamento ao racismo anti-árabe e anti-islâmico, uma proposta de «uma solução final para os muçulmanos», uma manifestação de «terror castanho» (leia-se, fascista) contra os muçulmanos. Para os defensores de Oriana Fallaci, o que está em causa é a denúncia do grande perigo que ameaça o Ocidente, o «fascismo verde» (leia-se, islâmico), denúncia essa que há quem tente impedir.

Suscitado pelos ataques de 11 de Setembro de 2001 às Twin Towers, La Rabbia e L'Orgoglio é, de facto, um violento libelo, cheio de raiva e de emoção, recorrendo por vezes a uma linguagem excessiva - sobretudo quando se trata da condição feminina face aos islamitas. Em termos vivos, denuncia aquilo que considera ser uma vontade de conquista e de hegemonia dos radicais islâmicos e, mesmo, do mundo muçulmano em geral. E critica os ocidentais de cegueira perante essa ameaça e o confronto que já estará em curso: um confronto que, se ainda não é militar, é «cultural, intelectual e religioso».

Mas não é em nome de uma ideologia de direita que Oriana Fallaci levanta a questão do expansionismo islâmico, em busca de uma cada vez mais vasta territorialidade sagrada. Resistente antinazi aos 14 anos de idade, reivindicando-se dos valores da revolução francesa e, inclusivamente, do jacobinismo não robesperriano, é a partir de uma posição de esquerda que a escritora levanta estas delicadas questões.

Excessiva, sem dúvida muitas vezes injusta, Oriana Fallaci tem, no entanto, o mérito de ousar provocar um oportuno debate civilizacional.

 

 

Economist

     

 

Islam

Fear and loathing

Jun 27th 2002
From The Economist print edition


La rabbia e l'orgoglio.
By Oriana Fallaci.
Rizzoli; 166 pages; euro9. Published in France as “La rage et l'orgeuil” by Plon, and distributed in the United States, in French, by French & European Publications

WOE betide those weedy westerners who criticise Oriana Fallaci's post-September 11th rant, “La rabbia e l'orgoglio” (“Rage and pride”) against the “sons of Allah”, who “breed like rats”, invade Europe to soil the piazzas and bridges of the author's native Florence with their “shit and piss” (“God, they piss a long stream, these sons of Allah”), and—wherever they may be, from Morocco to Afghanistan, Kenya to Saudi Arabia—revere as a hero Osama bin Laden. To take issue with this description is to be a spineless member of the chattering classes, and, in particular, to “have no balls”.

In Italy, and in France where “La rabbia e l'orgoglio” was published more recently, Ms Fallaci has a keen following and her book has rapidly become a bestseller. So, putting aside her scatological excess and testicular obsession, does she have a case? Up to a point, yes. It is true that Mr bin Laden is evil, yet has widespread support in the Muslim world; that Muslim women are discriminated against and sometimes—witness life under the Taliban—condemned to a life of miserable servitude; and that Europe's cities are a magnet for the world's poor, and so for the begging, prostitution, crime and other uglinesses that all too often come with them.

The problem is that the Manhattan-based Ms Fallaci, who by virtue of her distinguished career as a journalist should know better, provides no perspective and precious little context for her analysis of history. Instead, her book (an extended version of an article she wrote for Corriere della Sera after the terrorism attacks of September 11th) is a gloriously fluent diatribe, which panders to a succession of prejudices and convictions: her own ancestors were courageous patriots and so, witness her childhood in the Italian resistance, is she; Americans are generous and brave, none more so than New York's former mayor, Rudy Giuliani, and his fellow Italian-Americans.

And the Muslim contrast, discovered in the course of doing some political interviews and covering various Middle Eastern wars? Apart from a few kind words for Jordan's King Hussein and Pakistan's Zulfikar Ali Bhutto, Ms Fallaci seems to find nothing but crudeness and nastiness in the Muslim world, whether she is interviewing Yasser Arafat and the Ayatollah Khomeini or dealing with ordinary Afghans or Arabs (“In my opinion there is something in Arab men that disgusts women of good taste.”) As to Mr Arafat's idea of a glorious Arab and Muslim heritage, she maintains that only the ball-less and politically correct would equate Omar Khayyam with Dante or Shakespeare, or put medieval Arab science on a par with such western advances as the discovery of electricity, the steam engine, the telephone, rockets to the moon and so on.

But perhaps Ms Fallaci herself should have the courage to admit the weaknesses in her tirade. After all, surely most people in developing countries, including Catholic Filipinos and Buddhist Laotians, breed energetically (indeed, so did Ms Fallaci's fellow Italians until they discovered the pill and ignored the pope).

Moreover, the world's billion or so Muslims are surely as diverse in their origins, beliefs and interpretations as their Christian counterparts. Finally, for all Ms Fallaci's love of America and her scorn for gutless Europeans who believe “the Americans had it coming to them”, it is dishonest to make no mention of America's support for Saudi Arabia, an extremist regime along with the worst of them, or America's role in fostering the Taliban during the Afghan war against the Soviet Union. Ms Fallaci has many things in her life to be proud of, including her family's disavowal of Mussolini. It is ironic, not to say sad, that Mussolini would almost certainly have been proud of this extremist and potentially dangerous tract.

 

Le guerre sante passione e ragione
di Umberto Eco

(Publicado em La Repubblica de 5-10-2001)

CHE qualcuno abbia, nei giorni scorsi, pronunciato parole inopportune sulla superiorità della cultura occidentale, sarebbe un fatto secondario. E' secondario che qualcuno dica una cosa che ritiene giusta ma nel momento sbagliato, ed è secondario che qualcuno creda a una cosa ingiusta o comunque sbagliata, perché il mondo è pieno di gente che crede a cose ingiuste e sbagliate, persino un signore che si chiama Bin Laden, che forse è più ricco del nostro presidente del Consiglio e ha studiato in migliori università. Quello che non è secondario, e che deve preoccupare un poco tutti, politici, leader religiosi, educatori, è che certe espressioni, o addirittura interi e appassionati articoli che in qualche modo le hanno legittimate, diventino materia di discussione generale, occupino la mente dei giovani, e magari li inducano a conclusioni passionali dettate dall'emozione del momento. Mi preoccupo dei giovani perché tanto, ai vecchi, la testa non la si cambia più.


Tutte le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per secoli sono nate da adesioni passionali a contrapposizioni semplicistiche, come Noi e gli Altri, buoni e cattivi, bianchi e neri. Se la cultura occidentale si è dimostrata feconda (non solo dall'Illuminismo a oggi ma anche prima, quando il francescano Ruggero Bacone invitava a imparare le lingue perché abbiamo qualcosa da apprendere anche dagli infedeli) è anche perché si è sforzata di "sciogliere", alla luce dell'indagine e dello spirito critico, le semplificazioni dannose.
Naturalmente non lo ha fatto sempre, perché fanno parte della storia della cultura occidentale anche Hitler, che bruciava i libri, condannava l' arte "degenerata", uccideva gli appartenenti alle razze "inferiori", o il fascismo che mi insegnava a scuola a recitare "Dio stramaledica gli inglesi" perché erano "il popolo dei cinque pasti" e dunque dei ghiottoni inferiori all'italiano parco e spartano.
 

Ma sono gli aspetti migliori della nostra cultura quelli che dobbiamo discutere coi giovani, e di ogni colore, se non vogliamo che crollino nuove torri anche nei giorni che essi vivranno dopo di noi. Un elemento di confusione è che spesso non si riesce a cogliere la differenza tra l'identificazione con le proprie radici, il capire chi ha altre radici e il giudicare ciò che è bene o male. Quanto a radici, se mi chiedessero se preferirei passare gli anni della pensione in un paesino del Monferrato, nella maestosa cornice del parco nazionale dell'Abruzzo o nelle dolci colline del senese, sceglierei il Monferrato. Ma ciò non comporta che giudichi altre regioni italiane inferiori al Piemonte.

Quindi se, con le sue parole (pronunciate per gli occidentali ma cancellate per gli arabi), il presidente del Consiglio voleva dire che preferisce vivere ad Arcore piuttosto che a Kabul, e farsi curare in un ospedale milanese piuttosto che in uno di Bagdad, sarei pronto a sottoscrivere la sua opinione (Arcore a parte). E questo anche se mi dicessero che a Bagdad hanno istituito l'ospedale più attrezzato del mondo: a Milano mi troverei più a casa mia, e questo influirebbe anche sulle mie capacità di ripresa. Le radici possono essere anche più ampie di quelle regionali o nazionali. Preferirei vivere a Limoges, tanto per dire, che a Mosca. Ma come, Mosca non è una città bellissima? Certamente, ma a Limoges capirei la lingua. Insomma, ciascuno si identifica con la cultura in cui è cresciuto e i casi di trapianto radicale, che pure ci sono, sono una minoranza. Lawrence d'Arabia si vestiva addirittura come gli arabi, ma alla fine è tornato a casa propria.

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Passiamo ora al confronto di civiltà, perché è questo il punto. L'Occidente, sia pure e spesso per ragioni di espansione economica, è stato curioso delle altre civiltà. Molte volte le ha liquidate con disprezzo: i greci chiamavano barbari, e cioè balbuzienti, coloro che non parlavano la loro lingua e dunque era come se non parlassero affatto. Ma dei greci più maturi come gli stoici (forse perché alcuni di loro erano di origine fenicia) hanno ben presto avvertito che i barbari usavano parole diverse da quelle greche, ma si riferivano agli stessi pensieri. Marco Polo ha cercato di descrivere con grande rispetto usi e costumi cinesi, i grandi maestri della teologia cristiana medievale cercavano di farsi tradurre i testi dei filosofi, medici e astrologi arabi, gli uomini del Rinascimento hanno persino esagerato nel loro tentativo di ricuperare perdute saggezze orientali, dai Caldei agli Egizi, Montesquieu ha cercato di capire come un persiano potesse vedere i francesi, e antropologi moderni hanno condotto i loro primi studi sui rapporti dei salesiani, che andavano sì presso i Bororo per convertirli, se possibile, ma anche per capire quale fosse il loro modo di pensare e di vivere forse memori del fatto che missionari di alcuni secoli prima non erano riusciti a capire le civiltà amerindie e ne avevano incoraggiato lo sterminio.

Ho nominato gli antropologi. Non dico cosa nuova se ricordo che, dalla metà del XIX secolo in avanti, l'antropologia culturale si è sviluppata come tentativo di sanare il rimorso dell'Occidente nei confronti degli Altri, e specialmente di quegli Altri che erano definiti selvaggi, società senza storia, popoli primitivi. L'Occidente coi selvaggi non era stato tenero: li aveva "scoperti", aveva tentato di evangelizzarli, li aveva sfruttati, molti ne aveva ridotto in schiavitù, tra l'altro con l'aiuto degli arabi, perché le navi degli schiavi venivano scaricate a New Orleans da raffinati gentiluomini di origine francese, ma stivate sulle coste africane da trafficanti musulmani. L'antropologia culturale (che poteva prosperare grazie all'espansione coloniale) cercava di riparare ai peccati del colonialismo mostrando che quelle culture "altre" erano appunto delle culture, con le loro credenze, i loro riti, le loro abitudini, ragionevolissime del contesto in cui si erano sviluppate, e assolutamente organiche, vale a dire che si reggevano su una loro logica interna. Il compito dell'antropologo culturale era di dimostrare che esistevano delle logiche diverse da quelle occidentali, e che andavano prese sul serio, non disprezzate e represse.

Questo non voleva dire che gli antropologi, una volta spiegata la logica degli Altri, decidessero di vivere come loro; anzi, tranne pochi casi, finito il loro pluriennale lavoro oltremare se ne tornavano a consumare una serena vecchiaia nel Devonshire o in Piccardia. Però leggendo i loro libri qualcuno potrebbe pensare che l'antropologia culturale sostenga una posizione relativistica, e affermi che una cultura vale l'altra. Non mi pare sia così. Al massimo l'antropologo ci diceva che, sino a che gli Altri se ne stavano a casa propria, bisognava rispettare il loro modo di vivere.

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La vera lezione che si deve trarre dall'antropologia culturale è piuttosto che, per dire se una cultura è superiore a un'altra, bisogna fissare dei parametri. Un conto è dire che cosa sia una cultura e un conto dire in base a quali parametri la giudichiamo. Una cultura può essere descritta in modo passabilmente oggettivo: queste persone si comportano così, credono negli spiriti o in un'unica divinità che pervade di sé tutta la natura, si uniscono in clan parentali secondo queste regole, ritengono che sia bello trafiggersi il naso con degli anelli (potrebbe essere una descrizione della cultura giovanile in Occidente), ritengono impura la carne di maiale, si circoncidono, allevano i cani per metterli in pentola nei dì festivi o, come ancor dicono gli americani dei francesi, mangiano le rane.

L'antropologo ovviamente sa che l'obiettività viene sempre messa in crisi da tanti fattori. L'anno scorso sono stato nei paesi Dogon e ho chiesto a un ragazzino se fosse musulmano. Lui mi ha risposto, in francese, "no, sono animista". Ora, credetemi, un animista non si definisce animista se non ha almeno preso un diploma alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, e quindi quel bambino parlava della propria cultura così come gliela avevano definita gli antropologi. Gli antropologi africani mi raccontavano che quando arriva un antropologo europeo i Dogon, ormai scafatissimi, gli raccontano quello che aveva scritto tanti anni fa un antropologo, Griaule (al quale però, così almeno asserivano gli amici africani colti, gli informatori indigeni avevano raccontato cose abbastanza slegate tra loro che poi lui aveva riunito in un sistema affascinante ma di dubbia autenticità). Tuttavia, fatta la tara di tutti i malintesi possibili di una cultura "altra" si può avere una descrizione abbastanza "neutra". I parametri di giudizio sono un'altra cosa, dipendono dalle nostre radici, dalle nostre preferenze, dalle nostre abitudini, dalle nostre passioni, da un nostro sistema di valori. Facciamo un esempio. Riteniamo noi che il prolungare la vita media da quaranta a ottant'anni sia un valore? Io personalmente lo credo, però molti mistici potrebbero dirmi che, tra un crapulone che campa ottant'anni e san Luigi Gonzaga che ne campa ventitré, è il secondo che ha avuto una vita più piena. Ma ammettiamo che l'allungamento della vita sia un valore: se è così la medicina e la scienza occidentale sono certamente superiori a molti altri saperi e pratiche mediche.

Crediamo che lo sviluppo tecnologico, l'espansione dei commerci, la rapidità dei trasporti siano un valore? Moltissimi la pensano così, e hanno diritto di giudicare superiore la nostra civiltà tecnologica. Ma, proprio all'interno del mondo occidentale, ci sono coloro che reputano valore primario una vita in armonia con un ambiente incorrotto, e dunque sono pronti a rinunciare ad aerei, automobili, frigoriferi, per intrecciare canestri e muoversi a piedi di villaggio in villaggio, pur di non avere il buco dell'ozono. E dunque vedete che, per definire una cultura migliore dell'altra, non basta descriverla (come fa l'antropologo) ma occorre il richiamo a un sistema di valori a cui riteniamo di non potere rinunciare. Solo a questo punto possiamo dire che la nostra cultura, per noi, è migliore.

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In questi giorni si è assistito a varie difese di culture diverse in base a parametri discutibili. Proprio l'altro giorno leggevo una lettera a un grande quotidiano dove si chiedeva sarcasticamente come mai i premi Nobel vanno solo agli occidentali e non agli orientali. A parte il fatto che si trattava di un ignorante che non sapeva quanti premi Nobel per la letteratura sono andati a persone di pelle nera e a grandi scrittori islamici, a parte che il premio Nobel per la fisica del 1979 è andato a un pakistano che si chiama Abdus Salam, affermare che riconoscimenti per la scienza vanno naturalmente a chi lavora nell'ambito della scienza occidentale è scoprire l'acqua calda, perché nessuno ha mai messo in dubbio che la scienza e la tecnologia occidentali siano oggi all'avanguardia. All'avanguardia di cosa? Della scienza e della tecnologia. Quanto è assoluto il parametro dello sviluppo tecnologico? Il Pakistan ha la bomba atomica e l'Italia no. Dunque noi siamo una civiltà inferiore? Meglio vivere a Islamabad che ad Arcore?

I sostenitori del dialogo ci richiamano al rispetto del mondo islamico ricordando che ha dato uomini come Avicenna (che tra l'altro è nato a Buchara, non molto lontano dall'Afghanistan) e Averroè - ed è un peccato che si citino sempre questi due, come fossero gli unici, e non si parli di Al Kindi, Avenpace, Avicebron, Ibn Tufayl, o di quel grande storico del XIV secolo che fu Ibn Khaldun, che l'Occidente considera addirittura l'iniziatore delle scienze sociali. Ci ricordano che gli arabi di Spagna coltivavano geografia, astronomia, matematica o medicina quando nel mondo cristiano si era molto più indietro. Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare così si dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per terra ad aspettare per più di centocinquant'anni che arrivassero gli olandesi a comperargli l'intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci.

Le cose cambiano. Non serve ricordare che gli arabi di Spagna erano assai tolleranti con cristiani ed ebrei mentre da noi si assalivano i ghetti, o che il Saladino, quando ha riconquistato Gerusalemme, è stato più misericordioso coi cristiani di quanto non fossero stati i cristiani con i saraceni quando Gerusalemme l'avevano conquistata. Tutte cose esatte, ma nel mondo islamico ci sono oggi regimi fondamentalisti e teocratici che i cristiani non li tollerano e Bin Laden non è stato misericordioso con New York. La Battriana è stato un incrocio di grandi civiltà, ma oggi i talebani prendono a cannonate i Buddha. Di converso, i francesi hanno fatto il massacro della Notte di San Bartolomeo, ma questo non autorizza nessuno a dire che oggi siano dei barbari.

Non andiamo a scomodare la storia perché è un'arma a doppio taglio. I turchi impalavano (ed è male) ma i bizantini ortodossi cavavano gli occhi ai parenti pericolosi e i cattolici bruciavano Giordano Bruno; i pirati saraceni ne facevano di cotte e di crude, ma i corsari di sua maestà britannica, con tanto di patente, mettevano a fuoco le colonie spagnole nei carabi; Bin Laden e Saddam Hussein sono nemici feroci della civiltà occidentale, ma all'interno della civiltà occidentale abbiamo avuto signori che si chiamavano Hitler o Stalin (Stalin era così cattivo che è sempre stato definito come orientale, anche se aveva studiato in seminario e letto Marx).

No, il problema dei parametri non si pone in chiave storica, bensì in chiave contemporanea. Ora, una delle cose lodevoli delle culture occidentali (libere e pluralistiche, e questi sono i valori che noi riteniamo irrinunciabili) è che si sono accorte da gran tempo che la stessa persona può essere portata a manovrare parametri diversi, e mutuamente contraddittori, su questioni differenti. Per esempio si reputa un bene l'allungamento della vita e un male l'inquinamento atmosferico, ma avvertiamo benissimo che forse, per avere i grandi laboratori in cui si studia l'allungamento della vita, occorre avere un sistema di comunicazioni e rifornimento energetico che poi, dal canto proprio, produce l'inquinamento. La cultura occidentale ha elaborato la capacità di mettere liberamente a nudo le sue proprie contraddizioni.

Magari non le risolve, ma sa che ci sono, e lo dice. In fin dei conti tutto il dibattito su globale-sì e globale-no sta qui, tranne che per le tute nere spaccatutto: come è sopportabile una quota di globalizzazione positiva evitando i rischi e le ingiustizie della globalizzazione perversa, come si può allungare la vita anche ai milioni di africani che muoiono di Aids (e nel contempo allungare anche la nostra) senza accettare una economia planetaria che fa morire di fame gli ammalati di Aids e fa ingoiare cibi inquinati a noi?

Ma proprio questa critica dei parametri, che l'Occidente persegue e incoraggia, ci fa capire come la questione dei parametri sia delicata. E' giusto e civile proteggere il segreto bancario? Moltissimi ritengono di sì. Ma se questa segretezza permette ai terroristi di tenere i loro soldi nella City di Londra? Allora, la difesa della cosiddetta privacy è un valore positivo o dubbio? Noi mettiamo continuamente in discussione i nostri parametri. Il mondo occidentale lo fa a tal punto che consente ai propri cittadini di rifiutare come positivo il parametro dello sviluppo tecnologico e di diventare buddisti o di andare a vivere in comunità dove non si usano i pneumatici, neppure per i carretti a cavalli. La scuola deve insegnare ad analizzare e discutere i parametri su cui si reggono le nostre affermazioni passionali.

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Il problema che l'antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa quando il membro di una cultura, i cui principi abbiamo magari imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra. In realtà la maggior parte delle reazioni razziste in Occidente non è dovuta al fatto che degli animisti vivano nel Mali (basta che se ne stiano a casa propria, dice infatti la Lega), ma che gli animisti vengano a vivere da noi. E passi per gli animisti, o per chi vuole pregare in direzione della Mecca, ma se vogliono portare il chador, se vogliono infibulare le loro ragazze, se (come accade per certe sette occidentali) rifiutano le trasfusioni di sangue ai loro bambini ammalati, se l'ultimo mangiatore d'uomini della Nuova Guinea (ammesso che ci sia ancora) vuole emigrare da noi e farsi arrosto un giovanotto almeno ogni domenica?

Sul mangiatore d'uomini siamo tutti d'accordo, lo si mette in galera (ma specialmente perché non sono un miliardo), sulle ragazze che vanno a scuola col chador non vedo perché fare tragedie se a loro piace così, sulla infibulazione il dibattito è invece aperto (c'è persino chi è stato così tollerante da suggerire di farle gestire dalle unità sanitarie locali, così l'igiene è salva), ma cosa facciamo per esempio con la richiesta che le donne musulmane possano essere fotografate sul passaporto col velo? Abbiamo delle leggi, uguali per tutti, che stabiliscono dei criteri di identificazione dei cittadini, e non credo si possa deflettervi. Io quando ho visitato una moschea mi sono tolto le scarpe, perché rispettavo le leggi e le usanze del paese ospite. Come la mettiamo con la foto velata?

Credo che in questi casi si possa negoziare. In fondo le foto dei passaporti sono sempre infedeli e servono a quel che servono, si studino delle tessere magnetiche che reagiscono all'impronta del pollice, chi vuole questo trattamento privilegiato ne paghi l'eventuale sovrapprezzo. E se poi queste donne frequenteranno le nostre scuole potrebbero anche venire a conoscenza di diritti che non credevano di avere, così come molti occidentali sono andati alle scuole coraniche e hanno deciso liberamente di farsi musulmani. Riflettere sui nostri parametri significa anche decidere che siamo pronti a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi intollerabili.

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L'Occidente ha dedicato fondi ed energie a studiare usi e costumi degli Altri, ma nessuno ha mai veramente consentito agli Altri di studiare usi e costumi dell'Occidente, se non nelle scuole tenute oltremare dai bianchi, o consentendo agli Altri più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi - e poi si vede cosa succede, studiano in Occidente e poi tornano a casa a organizzare movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi non li possono fare (la storia è peraltro vecchia, e per l'indipendenza dell'India si sono battuti intellettuali che avevano studiato con gli inglesi).

Antichi viaggiatori arabi e cinesi avevano studiato qualcosa dei paesi dove tramonta il sole, ma sono cose di cui sappiamo abbastanza poco. Quanti antropologi africani o cinesi sono venuti a studiare l'Occidente per raccontarlo non solo ai propri concittadini, ma anche a noi, dico raccontare a noi come loro ci vedono? Esiste da alcuni anni una organizzazione internazionale chiamata Transcultura che si batte per una "antropologia alternativa". Ha condotto studiosi africani che non erano mai stati in Occidente a descrivere la provincia francese e la società bolognese, e vi assicuro che quando noi europei abbiamo letto che due delle osservazioni più stupite riguardavano il fatto che gli europei portano a passeggio i loro cani e che in riva al mare si mettono nudi - beh, dico, lo sguardo reciproco ha incominciato a funzionare da ambo le parti, e ne sono nate discussioni interessanti.

In questo momento, in vista di un convegno finale che si svolgerà a Bruxelles a novembre, tre cinesi, un filosofo, un antropologo e un artista, stanno terminando il loro viaggio di Marco Polo alla rovescia, salvo che anziché limitarsi a scrivere il loro Milione registrano e filmano. Alla fine non so cosa le loro osservazioni potranno spiegare ai cinesi, ma so che cosa potranno spiegare anche a noi. Immaginate che fondamentalisti musulmani vengano invitati a condurre studi sul fondamentalismo cristiano (questa volta non c'entrano i cattolici, sono protestanti americani, più fanatici di un ayatollah, che cercano di espungere dalle scuole ogni riferimento a Darwin). Bene, io credo che lo studio antropologico del fondamentalismo altrui possa servire a capire meglio la natura del proprio. Vengano a studiare il nostro concetto di guerra santa (potrei consigliare loro molti scritti interessanti, anche recenti) e forse vedrebbero con occhio più critico l'idea di guerra santa in casa loro. In fondo noi occidentali abbiamo riflettuto sui limiti del nostro modo di pensare proprio descrivendo la pensée sauvage.

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Uno dei valori di cui la civiltà occidentale parla molto è l'accettazione delle differenze. Teoricamente siamo tutti d'accordo, è politically correct dire in pubblico di qualcuno che è gay, ma poi a casa si dice ridacchiando che è un frocio. Come si fa a insegnare l'accettazione della differenza? L'Academie Universelle des Cultures ha messo in linea un sito dove si stanno elaborando materiali su temi diversi (colore, religione, usi e costumi e così via) per gli educatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare ai loro scolari come si accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto si è deciso di non dire bugie ai bambini, affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione. Né basta dirgli che sono tutti figli di Dio, perché anche gli animali sono figli di Dio, eppure i ragazzi non hanno mai visto una capra in cattedra a insegnargli l'ortografia. Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, per poi mostrare che queste diversità possono essere una fonte di ricchezza.

Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi bambini italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana. Il passo successivo sarà mostrare che c'è qualcosa in comune tra la nostra e la loro musica, e che anche il loro Dio raccomanda alcune cose buone. Obiezione possibile: noi lo faremo a Firenze, ma poi lo faranno anche a Kabul? Bene, questa obiezione è quanto di più lontano possa esserci dai valori della civiltà occidentale. Noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche noi.

Il parametro della tolleranza della diversità è certamente uno dei più forti e dei meno discutibili, e noi giudichiamo matura la nostra cultura perché sa tollerare la diversità, e barbari quegli stessi appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano. Punto e basta. Altrimenti sarebbe come se decidessimo che, se in una certa area del globo ci sono ancora cannibali, noi andiamo a mangiarli così imparano. Noi speriamo che, visto che permettiamo le moschee a casa nostra, un giorno ci siano chiese cristiane o non si bombardino i Buddha a casa loro. Questo se crediamo nella bontà dei nostri parametri.

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Molta è la confusione sotto il cielo. Di questi tempi avvengono cose molto curiose. Pare che difesa dei valori dell'Occidente sia diventata una bandiera della destra, mentre la sinistra è come al solito filo islamica. Ora, a parte il fatto che c'è una destra e c'è un cattolicesimo integrista decisamente terzomondista, filoarabo e via dicendo, non si tiene conto di un fenomeno storico che sta sotto gli occhi di tutti. La difesa dei valori della scienza, dello sviluppo tecnologico e della cultura occidentale moderna in genere è stata sempre una caratteristica delle ali laiche e progressiste. Non solo, ma a una ideologia del progresso tecnologico e scientifico si sono richiamati tutti i regimi comunisti. Il Manifesto del 1848 si apre con un elogio spassionato dell'espansione borghese; Marx non dice che bisogna invertire la rotta e passare al modo di produzione asiatico, dice solo che questi di questi valori e di questi successi si debbono impadronire i proletari.

Di converso è sempre stato il pensiero reazionario (nel senso più nobile del termine), almeno a cominciare col rifiuto della rivoluzione francese, che si è opposto all'ideologia laica del progresso affermando che si deve tornare ai valori della Tradizione. Solo alcuni gruppi neonazisti si rifanno a una idea mitica dell'Occidente e sarebbero pronti a sgozzare tutti i musulmani a Stonehenge. I più seri tra i pensatori della Tradizione (tra cui anche molti che votano Alleanza Nazionale) si sono sempre rivolti, oltre che a riti e miti dei popoli primitivi, o alla lezione buddista, proprio all'Islam, come fonte ancora attuale di spiritualità alternativa. Sono sempre stati lì a ricordarci che noi non siamo superiori, bensì inariditi dall'ideologia del progresso, e che la verità dobbiamo andarla a cercare tra i mistici Sufi o tra i dervisci danzanti. E queste cose non le dico io, le hanno sempre dette loro. Basta andare in una libreria e cercare negli scaffali giusti.

In questo senso a destra si sta aprendo ora una curiosa spaccatura. Ma forse è solo segno che nei momenti di grande smarrimento (e certamente viviamo uno di questi) nessuno sa più da che parte sta. Però è proprio nei momenti di smarrimento che bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle nostre superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta nelle scuole, e non solo nelle conferenze stampa.

(5 ottobre 2001)

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Martha Nussbaum, Ernst Freund Distinguished Service Professor of Law and Ethics in the Law School, the Divinity School, the Department of Philosophy, and the College; associate faculty in the Department of Classics; affiliate in the Committee on South Asian Studies; and board member of the Center for Gender Studies.

 

Cosmopolitan Emotions?
Opinion Editorial in the
Philadelphia Inquirer (16 September 2001)

At this terrible time we all have strong emotions for our country: fear, outrage, grief, astonishment. All our media are portraying this assault as a tragedy that has happened to our nation, and that is how we very naturally see it. We think these things are bad because it is us and our nation. Not just human lives, but American lives. The world has come to a stop - in a way that it never has for Americans, when disaster befalls human beings in other places. The genocide in Rwanda didn't even work up enough emotion in us to prompt humanitarian intervention. Floods, earthquakes, cyclones - and the daily deaths of thousands from preventable malnutrition and disease - none of these makes the American world come to a standstill, none elicits a tremendous outpouring of grief and compassion.

Compassion is an emotion rooted, probably, in our biological heritage. But this history does not mean that compassion is devoid of thought. In fact, as Aristotle argued long ago, it standardly requires three thoughts: that a serious bad thing has happened to someone else; that this bad event was not (or not entirely) the person's own fault; and that we ourselves are vulnerable in similar ways. Thus compassion forms a psychological link between our own self-interest and the reality of another person's good or ill. For that reason it is a morally valuable emotion - when it gets things right. Often, however, compassion errs - failing to link people at a distance to one's own current possibilities and vulnerabilities. (Rousseau said that kings don't feel compassion for their subjects because they count on never being human, subject to the vicissitudes of life.) Sometimes, too, compassion goes wrong by getting the seriousness of the bad event wrong: sometimes, for example, we just don't take very seriously the hunger and illness of people who are distant from us. These errors are likely to be built into the nature of compassion as it develops in childhood and then adulthood: we form intense attachments to the local first, and only gradually learn to have compassion for people who are outside our own immediate circle. For many Americans, that expansion of moral concern stops at the national boundary.

Most of us are brought up to believe that all human beings have equal worth. At least the world's major religions and most secular philosophies tell us so. But our emotions don't believe it. We mourn for those we know, not for those we don't know. And most of us feel deep emotions about America, emotions we don't feel about India, or Russia, or Rwanda. In and of itself, this narrowness of our emotional lives is probably acceptable and maybe even good. We need to build outward from meanings we understand, or else our moral life would be empty of urgency. Aristotle long ago said, plausibly, that the citizens in Plato's ideal city, asked to care for all citizens equally, would actually care for none, since care is learned in small groups with their more intense attachments. If we want our life with others to contain strong passions - for justice in a world of injustice, for aid in a world where many go without what they need - we would do well to begin, at least, with our familiar strong emotions toward family, city, and country.

But concern should not stop at the national border. Americans are all too prone to such emotional narrowness. When others were scheming to rescue the Jews during the Holocaust, America's inactivity and (general) lack of concern was culpable. It took Pearl Harbor to get us even to come to the aid of our allies. When genocide was afoot in Rwanda, our own sense of self-sufficiency and invulnerability stopped us from imagining the Rwandans as people who might be us; we were therefore culpably inactive toward them. And worse: our sense that the "us" is all that matters can easily flip over into a demonizing of an imagined "them", a group of outsiders who are imagined as enemies of the invulnerability and the pride of the all-important "us." Today it is all too easy for Americans, for example, to see the world in terms of a confrontation between good America and bad Islam, and to demonize all Muslims in consequence, whether here or abroad.

Compassion begins with the local. But if our moral natures and our emotional natures are to live in any sort of harmony we must find devices through which to extend our strong emotions to the world of human life as a whole. Since compassion contains thought, it can be educated. We can take this disaster as occasion for narrowing our focus, distrusting the rest of the world and feeling solidarity with Americans alone. Or we can take it as an occasion for expansion of our ethical horizons. Seeing how vulnerable our great country is, we can learn something about the vulnerability all human beings share, about what it is like for distant others to lose those they love to a disaster not of their own making, whether it is hunger or flood or ethnic cleansing. Our media and our systems of education give us far too little information about lives outside our borders, stunting our moral imaginations. On this terrible occasion we can renew our commitment to the equal worth of humanity, demanding media, and schools, that nourish and expand our imaginations by presenting non-American lives as deep, rich, and emotion-worthy. "Thus from our weakness," said Rousseau of such an education, "our fragile happiness is born." Or, at least, it might be born

 

 

 

 

(* Este artículo fue publicado en The Philadelphia Inquirer el domingo 16 de septiembre de 2001. La profesora Nussbaum ha cedido generosamente la versión castellana a El Observ@torio de la Comunic@ción, que agradece a Eduardo Rojas por su traducción.)

Martha Nussbaum

Profesora de Ética - University of Chicago

Sentimientos sin fronteras?

En estos momentos terribles tenemos fuertes sentimientos vinculados con nuestro país: miedo, rabia, pena, asombro. Todos nuestros medios de comunicación están mostrando este violento ataque como una tragedia que le ha ocurrido a nuestra nación, y ésta es la forma como nosotros naturalmente lo vemos. Pensamos que estas cosas son malas porque somos nosotros y nuestra nación. No exactamente se trata de vidas humanas, sino de vidas norteamericanas. El mundo ha llegado a paralizarse por causa de los norteamericanos como nunca antes lo hizo cuando los desastres cayeron sobre las vidas humanas de otros lugares. El genocidio en Ruanda ni siquiera produjo en nosotros una emoción suficiente como para provocar una intervención humanitaria. Inundaciones, terremotos, ciclones y las cotidianas miles de muertes provocadas por una evitable mala nutrición y enfermedades, nada de esto ha hecho que nuestro mundo americano llegara a pararse, ni tampoco generara una tremenda afloración de pena y compasión.

La compasión es un sentimiento enraizado probablemente en nuestra herencia biológica. Pero esta historia no significa que la compasión carezca de pensamiento. En realidad, como Aristóteles lo expresara mucho tiempo atrás, la compasión requiere de tres pensamientos: que una cosa mala y grave le haya ocurrido a alguien; que ese mal no provenga –al menos no enteramente- de una falta de la misma persona y que nosotros mismos seamos vulnerables en forma semejante. De tal modo, la compasión genera un lazo entre nuestro propio interés y la realidad del bien o el mal de otra persona. Por esa razón es un valioso sentimiento cuando endereza las cosas debidamente. A menudo, sin embargo, la compasión yerra, dejando de enlazar a las personas que se encuentran distantes de nuestras propias –comunes– posibilidades y vulnerabilidades. (Rousseau escribió que los reyes no sienten compasión por sus súbditos porque suponen que nunca estarán sujetos como ellos a las vicisitudes de la vida.)

Algunas veces también la compasión se extravía al considerar erróneamente la seriedad del evento dañino: por ejemplo, nosotros no tomamos muy seriamente el hambre y la enfermedad de la gente que se encuentra lejos. Pareciera que tales errores de apreciación van siendo construidos en la naturaleza de la compasión a medida que la desarrollamos en la niñez y luego en la vida adulta: formamos intensos vínculos dentro de lo que nos es vecino, y solamente de manera gradual aprendemos a tener compasión por la gente que se encuentra fuera de nuestro propio círculo inmediato. Para muchos norteamericanos, esa expansión de la atención moral acaba cuando llega a la frontera nacional.

La mayoría de nosotros cree que todos los seres humanos tienen el mismo valor. Al menos, las religiones más difundidas en el mundo y la mayoría de las filosofías nos dicen eso. Pero nuestros sentimientos no lo creen. Hacemos duelo por aquellos que conocemos, no por los que no conocemos. Y muchos de nosotros tenemos profundos sentimientos hacia los Estados Unidos, pero no hacia la India, Rusia o Ruanda. En sí misma, esta estrechez de nuestra vida emocional es probablemente aceptable y hasta quizá buena. Necesitamos construir el afuera a partir de sentidos que nosotros entendemos o, de lo contrario, nuestra vida moral estaría vacía de aquello que nos urge. Aristóteles ha escrito hace mucho tiempo que pareciera que los ciudadanos de la ciudad-estado ideal del Platón –a quienes se les pidió que cuidaran a todos sus con-ciudadanos por igual– en realidad no habrían cuidado a ninguno de ellos, dado que la atención al otro es enseñada en pequeños grupos a través de sus vínculos más fuertes. Si queremos que nuestra vida con otros contenga fuertes sentimientos orientados hacia la justicia en un mundo injusto, hacia la ayuda en un mundo donde muchos viven sin aquello que necesitan, haríamos bien en empezar al menos con los poderosos lazos que tenemos hacia la familia, la ciudad y el país.

Pero la atención al prójimo no debe detenerse en la frontera de nuestro país. Los norteamericanos estamos demasiado inclinados hacia esos estrechos sentimientos. Cuando otros estaban urdiendo la forma de rescatar a los judíos durante el Holocausto, la inactividad de los Estados Unidos y, en general, la carencia de interés por el prójimo fue culpable. Resultó necesario Pearl Harbor para llevarnos a prestar socorro aun a nuestros aliados. Cuando el genocidio se produjo en Ruanda, nuestro propio sentido de autosuficiencia e invulnerabilidad impidió que pudiéramos imaginarnos a los pobladores de Ruanda como si de nosotros se tratara; éramos, por lo tanto, de una inactividad culpable hacia ellos. Y mucho peor que eso: nuestro sentido de que “el nosotros” es todo lo que importa puede fácilmente convertirse en una demonización imaginada del “ellos”, un grupo de marginados que imaginamos como enemigos de la invulnerabilidad y el orgullo del tan importante “nosotros”. Hoy es muy fácil para todos los norteamericanos ver el mundo en términos de confrontación entre la buena América y el malo Islam y convertir, en consecuencia, en demonios a todos los musulmanes, ya sea aquí o en el extranjero.

La compasión comienza en lo más cercano. Pero si nuestra naturaleza moral y nuestros sentimientos naturales son los de vivir en alguna suerte de armonía debemos encontrar los mecanismos a través de los cuales podamos extender nuestros fuertes sentimientos hacia un mundo que considera la vida humana como un todo. Si la compasión contiene al pensamiento, puede ser educada, y los estadounidenses podemos tomar esta calamidad como una ocasión para reducir nuestro enfoque, descreyendo del resto del mundo y sintiéndonos solidarios solamente con los norteamericanos, o podemos tomarlo como una ocasión para expandir nuestro horizonte ético. Observando cuán vulnerable es nuestro gran país, podemos aprender algo sobre la vulnerabilidad que todos los seres humanos compartimos; sobre lo que es para aquellos seres distantes perder a quienes aman en un desastre que ellos no produjeron, ya sean hambrunas, inundaciones o limpiezas étnicas. Nuestros medios y nuestros sistemas de educación nos dan muy poca información sobre vidas fuera de nuestras fronteras, atrofiando nuestra comprensión moral. En esta terrible ocasión podemos renovar nuestro compromiso por otorgarle un mismo valor a toda la humanidad, reclamando a los medios y a las escuelas que nutran y expandan nuestra imaginación, presentando las vidas no-norteamericanas como vidas profundas, ricas y llenas de sentimientos valiosos. “Así, de nuestra debilidad”, producto de este tipo de educación –dijo Rousseau–, “ha nacido la fragilidad de nuestra felicidad”. O, al menos, podría nacer.

 

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