15-12-2017

 

 

"Ho smesso di piangere" e "Mai all'altezza" de Veronica Pivetti

 

 

 

   

NOTA DE LEITURA

 

Veronica Pivetti (n. 1965) é actriz de cinema e televisão, locutora de dobragens, realizadora, apresentadora e, pelos vistos, agora também escritora.  Esteve casada três anos com Giorgio Ginex, mas não tem filhos. Vive com uma amiga, Giordana, mas jura a pés juntos que a relação delas nada tem de sexual, conforme polémica abaixo transcrita.

No primeiro livro Ho smesso di piangere: la mia odissea per uscire dalla depressione, editado pela Mondadori em 2012, conta a história da sua doença na tiróide e da depressão que teve a seguir, atacando duramente os médicos que cometeram erros a tratá-la. Partindo do princípio que utilizou os nomes verdadeiros, foi muito corajosa.

No segundo,  Mai all'altezza, também editado pela Mondadori em 2017, conta passos da sua vida. Não é propriamente uma biografia, porque é muito selectiva na escolha dos episódios que conta. Omite a entrada no mundo profissional ainda criança aos 7 anos como locutora de dobragens, nada diz do casamento e da separação, nem dos namoros que teve. Descreve em pormenor um terrível incêndio que teve no seu apartamento, há poucos anos.

Escreve muito bem e lê-se com muito agrado. De vez em quando usa também calão, mas fica dentro do contexto. A sua escrita, porém, é literária, desenvolve e esgota assuntos e descrições.

Veronica Pivetti tem uma irmã mais velha dois anos, Irene Pivetti (n. 1963) que, muito nova, foi Presidente da Câmara dos Deputados, de 1994 a 1996. Esta teve um primeiro casamento, sem filhos, com Paolo Taranta, que foi anulado pela Sagrada Rota. Casou depois com Alberto Brambilla (mais novo que ela 10 anos) em 1997, de quem se separou em 2010; tiveram dois filhos Ludovica e Frederico.

Irene abandonou a carreira política e entrou também na TV, como opinionista; para além disso, é empresária.

As duas irmãs dão-se bem, mas foram sempre muito diferentes. Irene, católica praticante. é mais inteligente, mas menos simpática.

 

 

 

 

LA STAMPA.it

 

11-3-2012

Veronica Pivetti: Ho smesso di piangere con Wodehouse

La conduttrice su RaiTre (con Piero Dorfles)  di "Per un pugno di libri" signora bestseller con il racconto della sua lunga depressione

 

MIRELLA SERRI

Riccioli ribelli, eloquio torrentizio («mia madre, da piccola, mi diceva: per piacere, adesso prova a star zitta cinque minuti»), mani che frugano nervosamente in un’immensa sacca jeans. «Eccolo!». Veronica Pivetti, sciarpa a strisce e ampi pantaloni, fa emergere, tutto stropicciato e con le orecchie nelle pagine, l’intrigante Il sospetto di Friedrich Dürrenmatt. «Non esco mai di casa senza un libro in borsetta», spiega la Prof per antonomasia del piccolo schermo, la «Ladra» dagli occhi di gatta e, dall’inizio dell’anno, anche conduttrice dell’allegro agone culturale «Per un pugno di libri» (con Piero Dorfles, tutte le domeniche su RaiTre).

L’incontenibile Veronica, figlia d’arte (entrambi i genitori nel mondo del cinema), sorella di Irene, ex presidente della Camera («non ci siamo mai contese un libro anche perché quando ero piccola proprio non ne leggevo»), remissiva Fosca in Viaggi di nozze, il film di Carlo Verdone che l’ha lanciata, ora rivela un volto inedito. Quello di appassionata cultrice di libri. E pure di scrittrice: è uscito da poco ed è già ai primi posti delle classifica, Ho smesso di piangere. La mia odissea per uscire alla depressione (Mondadori).

Un racconto autobiografico dove la Pivetti, a colpi di umorismo, riesce a rendere luminoso il suo transito in quel buio durato dal 2001 al 2008.
«Sono fatta così: passo da un estremo all’altro, dalla malinconia a una notevole vitalità. I personaggi con cui mi identifico più volentieri sono, non a caso, agli antipodi: Groucho Marx, Anna Karenina e Madame Bovary».

Baffi vistosi e sigaro tra i denti, per il grande comico statunitense, spalle bianche e capelli neri con ghirlanda di «miosotidi» per l’eroina di Tolstoj, scarpette leggere e tanta voglia di trasgressione per la signora di Flaubert: no, non sono proprio simili.
«Certo. Io sono una persona solare e positiva, nella vita di tutti i giorni mi piace essere di buonumore ma quando mi metto in poltrona, allungo le gambe e accendo una lampada con la luce diffusa, desidero soffrire, entrare nelle dinamiche della psicologia più tormentata e ambigua, delle passioni impossibili. Tutto ha origine, secondo me, dal singolare rapporto che ho avuto con i libri fin da piccola».

Non li apprezzava? Eppure, suo nonno materno era il famoso linguista, Aldo Gabrielli.
«Fino a tredici anni sono stata una bestia. Mia madre faceva di tutto per addomesticarmi ma dalle librerie giravo alla larga. I fumetti erano la mia salvezza. Ero una fan di Super Pippo, ispirato a Superman. Poi c’era Paperinik, nelle vesti del vendicatore. Da ragazzina, anche se avrei voluto avere il volto tormentato e sottile di Anouk Aimée o di Charlotte Rampling, assomigliavo soprattutto all’imbranato Pippo, così lunga, alta e spesso impacciata. Poi un giorno arriva la rivelazione».

Con quali sembianze?
«Thomas Mann. E’ stato lui che mi ha spalancato le porte della letteratura. Avevo sedici anni. Mia sorella si dilettava con Nietzsche e io consideravo la lettura un tabù. A cena sento mia madre e Irene discutere de I Buddenbrook, decadenza di una famiglia. Incuriosita chiedo timidamente se possa andar bene anche per me, suscitando qualche risatina e molte perplessità. Quando lo prendo in mano… sono fulminata, è una droga… non me ne stacco più. Le vicende di Tony che convola a nozze non per amore ma per contribuire alla prosperità e alla solidità della famiglia furono una traversata indimenticabile. Da allora la letteratura è diventata un fiume in piena».
Ma prima l’insegnamento scolastico non la stimolava? «Al contrario, mi demotivava. A Milano dove sono cresciuta ero iscritta dalle Orsoline, classe tutta femminile. Nei pomeriggi privi di compiti ero in prima fila davanti al grande schermo. Allora c’erano sale cinematografiche di prima, seconda e terza visione: vi si potevano vedere anche vecchie riproposte, come i Dieci comandamenti. Macinavo di tutto, da Buñuel a Martin Scorsese, da Casablanca ad A qualcuno piace caldo. Un giorno rimango incantata da Barry Lindon, diretto da Stanley Kubrick e tratto dal romanzo di William Makepeace Thackeray. Per essere il più realistico possibile, il regista si era rifatto a quadri, stampe e disegni del XVIII secolo nei costumi e nella scenografia. In classe intervengo per dire che avevo assistito a uno spettacolo meraviglioso e la docente: “Ma che film noioso!”. Mi lasciò basita. Intanto fortunatamente avevo scoperto la lettura».

Le sue vestali?
«Zola con L’assommoir, dove la Nanà scappa di casa per andare a fare la ballerina nei locali notturni; Maupassant con Boule de Souif e Bel Ami, Dostoevskij con Delitto e castigo o L’idiota. Erano capolavori molto diversi ma accomunati dalla stessa caratteristica ai miei occhi di under venti con molti vuoti culturali: denunciavano ogni tipo di accomodamento e di perbenismo».

Era una ribelle?
«Al contrario. Sono sempre stata solitaria, molto poco mondana e preoccupata dai rapporti sociali e pure da quelli sentimentali. Ero iscritta all’Accademia di Belle Arti di Brera e il messaggio che passava tra gli studenti era che dovevamo essere comunque e sempre molto originali e diversi. Era il mio battesimo al conformismo dell’anticonformismo. Un atteggiamento che ho poi ritrovato in molti ambienti, anche in quello dello spettacolo: così leggere scrittori che mettevano alla berlina ogni diktat e omologazione era un toccasana. Lo stesso effetto di libertà me lo ha offerto Mr. Vertigo di Paul Auster, dove, attraverso le vicende di un moderno Huck Finn, si costruisce una favola moderna che insegna a lottare contro le avversità ma mai in maniera scontata e banale. Come pure Revolutionary Road di Richard Yates che mette in scena le vicende di una coppia nella New York anni Cinquanta divisa tra l’esigenza di assecondare le proprie aspirazioni e quella di conformarsi alle ipocrisie dell’epoca. A svincolarmi dagli stereotipi mi aiutava anche Charles Bukowski: “ospedali, galere e puttane: sono queste le università della vita. Io ho preso parecchie lauree. Chiamatemi dottore”: questo il suo motto. Io non ho mai preso il diploma di “cattiva ragazza” ma sono sempre stata tranquilla e accomodante: così della sua narrativa ho apprezzato anche le doti di dolcezza e tenerezza».

Nella sua esistenza punteggiata di soddisfazioni professionali e notorietà, piomba come un fulmine a ciel sereno la depressione, a seguito di un disturbo alla tiroide. Ha continuato a navigare nelle acque della lettura?
«Ho bandito questa fonte di piacere. Non ho toccato nemmeno un volume. Me li negavo. Volevo soffrire. Solo le medicine e la psicoterapia hanno funzionato».

Appena riemerge da quelle sabbie mobili?
«Sono diventata freneticamente, ansiosamente divorante, alla rincorsa del tempo perduto: ho sempre un’opera in mano in autobus, in metropolitana, in treno. Sul set, nelle pause tra una scena e l’altra, torno a ridere con Wodehouse. Divoro le biografie degli attori, come quella di Charlie Chaplin. A casa, la sera mi dedico agli intrecci di cui Ian McEwan è maestro: come in Espiazione, romanzo in cui si viviseziona mirabilmente il senso di colpa. Mi intrattengo con il trentacinquenne Rob Fleming mollato dalla sua fidanzata in Alta fedeltà di Nick Hornby. Mi lascio travolgere da Un giorno questo dolore ti sarà utile di Peter Cameron e dal suo diciottenne newyorkese solitario e colto, che lavora nella galleria d’arte gestita dalla madre. Non mi risparmio il terrore di Stephen King che mi affascina tanto in Misery non deve morire quanto ne Il gioco di Gerald, in cui una donna vede il partner di giochi pericolosi colpito da infarto. Si ritrova ammanettata al letto nella sua casa al lago in completa solitudine con un cane pronto a sbranarla. Georges Simenon è come un genitore, quando ti dedichi a un suo libro è come se tornassi a casa. E io ci torno spesso. Ogni opera ha il suo tempo: le Correzioni di Jonathan Franzen, l’avevo acquistato, sfogliato, “assaggiato” e messo da parte. L’ho ripreso solo di recente e ho bagnato di lagrime le ultime pagine. In libreria ho la tessera con lo sconto, non mi faccio consigliare, mi aggiro tra gli scaffali e scelgo da sola. Per me recitare, ma anche vivere, è una forma di finzione. Anche gli amori mi piacciono molto, soprattutto quando sono di carta. I libri sono il mondo vero, vengo sedotta pure dagli autori, viventi o no, è inessenziale. Faccio mia la battuta di Groucho: “Preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere... nella vita non c’è una trama”».

 

 

STATE OF MIND

 

 

Veronica Pivetti racconta nel suo libro un lungo periodo di depressione iniziato con la diagnosi di un malfunzionamento della tiroide.

Pubblicato il: 11 settembre 2012

 

di Gaspare Palmieri

Recensione: Ho smesso di piangere di Veronica Pivetti. Mondadori, 2012 

Durante la perlustrazione di una di quelle folcloristiche bancarelle di libri di una nota località marittima della Versilia, la mia attenzione è stata attirata dal libro di Veronica Pivetti, sorella di Irene, già Presidente della Camera dei Deputati del primo governo Berlusconi (e successivamente passata al giornalismo e alla conduzione televisiva).
Veronica Pivetti , di professione attrice brillante, con diversi ruoli soprattutto in serie televisive, racconta nel libro un lungo periodo oscuro durato circa sei anni e iniziato con la diagnosi di un malfunzionamento della tiroide.
Non è la prima volta che vengo incuriosito dalle autobiografie o dalle biografie di personaggi noti che entrano del tunnel della cosiddetta Cosa Brutta come la chiamava il compianto e geniale David Foster Wallace (2009). Precedentemente avevo letto La Partita più importante di Gianluca Pessotto (2008), di cui mi colpì la drammaticità e il valore simbolico del tentativo autolesivo (defenestrazione dalla sede della Juventus F.C., durante il Mondiale di calcio del 2006, poi vinto dall’Italia) e il miracoloso lieto fine della vicenda.
Mi aveva toccato molto anche la tremenda fine di Marco Pantani, un atleta in grado di emozionare fino all’esaltazione un’intera nazione, ma finito isolandosi in una solitudine paranoide favorita da un’inefficace tentativo autoterapeutico a base di stupefacenti e ben raccontata da Philippe Brunel (2008).
Da diversi anni si parla di biblioterapia (Floyd, 2003), cioè della lettura di libri o manuali di autoaiuto come potenziamento della psicoterapia o della terapia farmacologica. 
Molti clinici consigliano la lettura di libri ai propri pazienti affetti soprattutto da disturbi d’ansia o depressivi. A me è capitato ad esempio in ambulatorio un paio di volte di consigliare a persone affette da depressione la lettura di  E liberaci dal male oscuro di Cassano(Cassano e Zoli, 2003), dove una giornalista con precedenti di depressione intervista un luminare della psichiatria biologica. I consigli mirati possono in parte evitare la ricerca selvaggia di informazioni e storie nell’oceano del web, che spesso possono contenere informazioni errate. 
Articolo Consigliato: Film e Psicoterapia. Recensione de “I Territori dell’Incontro”.
La Cosa Brutta non guarda in faccia nessuno: ricchi e poveri, anonimi e famosi, giovani e vecchi. Credo che chi abbia il coraggio di raccontare il proprio incontro con la Cosa Brutta lo faccia innanzi tutto per sé stesso con intento catartico, oltre che commerciale.
Un po’ di coraggio ci vuole perché come scrive la Pivetti “se sei un assassino ti accettano più facilmente che se sei depresso”, soprattutto nel mondo dello spettacolo, dove l’apparenza luminosa, il sorriso a trentasei denti sfoggiato forzatamente, il dinamismo a tutti i costi sono praticamente dei must (anche per questo il consumo di cocaina in questi ambienti non è così insolito).
Il depresso qualunque che vede che “anche i ricchi piangono” potrebbe sentirsi un po’ meno solo e forse anche meno sfigato, almeno per la durata della lettura del libro.
Veronica attribuisce nel libro una grande importanza all’origine biologica (distiroidismo) della propria depressione, parlando poco delle proprie relazioni affettive e degli aspetti intrapsichici (a parte una precisa descrizione dei sintomi depressivi). Accenna a un divorzio e sottolinea l’importanza del sostegno paziente e infaticabile dell’amica del cuore Gio e dei cani Harpo e Nyo. 
Sicuramente non viene molto aiutata da una serie di incontri con medici sbagliati per diversi motivi, parte dei quali legati all’essere la paziente persona di successo. C’è il luminare che sente l’ansia da prestazione di fronte al paziente vip, c’è il medico vanesio attore mancato che racconta le sue esperienze teatrali ai tempi dell’Università invece di concentrarsi sui problemi della paziente, quello decisamente insensibile, che congeda la paziente dicendo “Mi raccomando continui a farci ridere!!!”. 
E poi spunta una psicoterapeuta un po’ new age che scioglie i nodi con delle manipolazioni (bioenergetica…?), consiglia di pensare alla propria vagina come a qualcosa di bello e che alla fine resta la presenza costante e rassicurante di fronte al vertiginoso turnover di medici. La sventurata Veronica sperimenta anche due psichiatri, la prima bocciata per mancanza di carisma e il secondo promosso, almeno all’inizio.
Accetta di assumere diverse terapie psicofarmacologiche, che poi si autosospende in modo graduale, per paura di dover dipendere dagli psicofarmaci a vita, paura diffusissima tra le persone depresse.Lo psichiatra ipotizza anche una forma di bipolarismo che lei rifiuta categoricamente.
Da psichiatra dovrei essere orripilato dall’autosospensione dei farmaci da parte di un paziente. In realtà, chiaramente nelle forme patologiche non troppo gravi, capita che sia il paziente a scegliere in modo un po’ anarcoide per quanto tempo assumere la terapia farmacologica, essendoci ancora poca chiarezza sui tempi precisi di assunzione degli antidepressivi. L’ideale sarebbe comunque che medico e paziente decidano insieme e che non si facciano le cose di nascosto. Un percorso lungo e difficile insomma, come quello di milioni di persone depresse. 
Uno dei pregi del libro è l’autoironia con cui la Pivetti sdrammatizza sulla propria storia, come quando dice “Anche perché, è giusto dirlo, il depresso è un immenso rompicoglioni”, arrivando poi ad esprimere concetti clinicamente validissimi come “Il depresso è convinto che nessuno soffra quanto lui, e il guaio è che ha ragione. Su mille depressi ci sono mille sofferenze diverse e uniche al mondo, mille dolori indicibili e mille solitudini che nessuno potrà alleviare”. 
Condivido che “la persona depressa ha bisogno di cure, è innegabile. Ma ha anche bisogno dell’amore di chi le sta vicino, perché solo l’amore altrui ti dà la forza di non desiderare di morire”.
C’è il valore della sofferenza come strumento di conoscenza “Sì, la depressione era un ottimo motore di ricerca di me” e l’innegabile potere sanatorio del tempo. 
Il libro si conclude con la decisione di intraprendere un percorso psicanalitico da un affascinante terapeuta ottuagenario, visto per la prima volta in una trasmissione televisiva. Qualcuno ricorda qualcosa sul vecchio concetto di narcisismo? 
 

          la Repubblica 

 

MAI ALLALTEZZA

Veronica Pivetti torna scrittrice: "L'importante è non prendersi troppo sul serio"

SILVIA FUMAROLA

Pubblicato il 30 gennaio 2017

 

L'attrice si racconta nell'autobiografia 'Mai all'altezza - Come sentirsi sempre inadeguata e vivere felice': "La scrittura mi ha obbligato a guardarmi dentro, ma senza ironia non c'è gusto"

 

L’ironia, l’arma più potente per non farsi inghiottire dal dolore e non farsi mettere ko: Veronica Pivetti l’ha scoperto subito che sorridere di se stessa e degli altri l’avrebbe salvata "nelle piccole  e grandi tragedie della vita" spiega l’attrice. Dopo Ho smesso di piangere, in cui spiegava come ha combattuto la depressione, nell’autobiografia Mai all’altezza - Come sentirsi sempre inadeguata e vivere felice appena uscita da Mondadori, si racconta con ironia, dalla prima pagina: "Per una bambina di sette anni avere il trentasei di piede nel 1972 era come avere due teste o la barba".

Nel libro racconta dell’incendio che le ha distrutto la casa, dell’amore per i cani, del primo fidanzato, per comodità definito Cubo che come regalo le dona una pastaiola. "Ci rendiamo conto? Una macchina per fare la pasta!". Oggi le aspiranti chef esulterebbero, alla giovane Veronica sembrò una sanguinosa offesa: "Significava solo: stai a casa e cucina".
Recitare e scrivere sono complementari.

 

"Ho capito quanto sia profondo il rapporto che instauri con te stessa quando ti metti a scrivere" racconta Pivetti, "per lavoro devi andare a memoria e cancellare. La scrittura mi ha aperto un mondo che è il mio, mi ha obbligato a guardarmi dentro. Con Mondadori ho firmato un contratto per due libri, il primo ha funzionato, mi è costato fatica, ho dovuto imparare una disciplina che non conoscevo".

La parola d’ordine nella vita di Veronica Pivetti, protagonista di fiction di successo (CommesseProvaci ancora prof, di cui sta girando i nuovi episodi), valletta a Sanremo per Raimondo Vianello accanto a Eva Herzigova, strepitosa moglie di Carlo Verdone in Viaggi di nozze, è sempre stata "non prendersi troppo sul serio".

 

"Perché nel mio lavoro" continua "l’ego sgomita e devi tenerlo a bada. Il mio sguardo è ironico e autoironico, se no non c’è gusto. Ho raccontato cose che sono qualunque, ma in cui tutti possono identificarsi. Lo zaino delle nostre esperienze è pieno di dolori, di piccoli traumi quotidiani che a dieci anni sono grandi come il mondo". Racconta con ironia anche dell’incendio che le ha distrutto la casa: come ha fatto? "Il libro è nato due anni dopo, è una cosa dalla quale non torni indietro. Qui non ci sono santi, le cose non si recuperano più, quello che ho descritto è tutto vero: ti guardi intorno, e intorno non c’è più nulla. Mi spiace per quello che ho perso ma la roba incenerita mi ha dato il desiderio di non avere più nulla per molto tempo" dice Pivetti. "E’ stato un periodo di grande dolore mi sono rimboccata le maniche poi ho avuto sempre Giordana al mio fianco, anche se lei mangia cartonato sanissimo e  io sono per le cose che sbrodolano aromi artificiali... Rimane il fatto che non hai una casa, avendo salvato i cani per me l’incendio non ha fatto danni. Se fosse successo qualcosa a loro sarei morta".
 

Per ricostruire il suo mondo, ha usato una tecnica personale: "Mi compro i libri usati che hanno dentro la vita di qualcun altro, simbolicamente, vedo pagine che hanno avuto una storia, sono scritte, sottolineate, macchiate. Le cose nuove non m’interessano più: una non ci pensa mai, ma di quante cose inutili ci circondiamo?".

Un pacchetto di patatine per consolarsi, gli amati cani Harpo e Nyo, Veronica, la ragazza più alta della classe che confessa di non sentirsi all’altezza, scava nei ricordi di una vita, dalla scuola alle lezioni di danza dov’è costretta a dichiarare ad alta voce, che sì, lei ha sette anni e a differenza di Barbara, Simona, Elena, Claudia, che arrivano al massimo al  numero 31 di scarpa lei porta il 36; poi i sogni, di essere segata, fatta a pezzi da un compagno delle medie, lasciata sanguinare, ragazzina, nell’indifferenza generale. L’oratorio, il prete canterino e la cotta per Adriana: "Mi aveva conquistata con un’affabilità casalinga da sorella maggiore". "Ci sono donne che vogliono essere fighe", sorride l’attrice "è una cosa che non  calcolo, non ci penso, facevo danza e  mia madre mi diceva: “Sembri un cavatappi”… Sono contenta di essere alta un metro e 75 ma non è quello il fulcro del mio interesse. Mi piace il rapporto con la gente, le presentazioni dei libri sono sempre interessanti, c’è uno scambio.
La gente ha fame di ascolto".
 

Dal libro si capisce che l’unico punto fermo nella sua vita sono Giordana e i cani. "Compiango quelli che non capiscono cosa ti dia un cane, l’amore la gioia la vita l’affetto. In tanti si perdono qualcosa di immenso. Peccato".
 

 

      BLOGO

 

martedì 22 agosto 2017

Veronica Pivetti: "Non sono omosessuale, con Giordana amicizia viscerale"

Di Massimo Galanto 

UPDATEVeronica Pivetti, attraverso un lungo messaggio diffuso sui social, ha commentato quanto riportato dal settimanale DiPiù smentendo di fatto di essere lesbica. Ecco le sue parole:

Ciao! 
Quando il gioco si fa duro si sa che i duri cominciano a giocare, e io ho proprio voglia di giocare un po' con voi. 
Perché? Semplice, perché siete amici e perché mi volete bene (ricambiati!!!) da moltissimi anni. 
Immagino che qualcuno di voi avrà saputo cosa mi è successo in questi giorni. Un settimanale abbastanza folcloristico ha deciso di farmi parlare di me. 
Capita, soprattutto sotto promozione, e dato che la Prof è alle porte (inizia a metà settembre, lo sapete, vero?) cosa c'è di meglio di un po' di sana bagarre? 
Il punto non è la bagarre e nemmeno il motivo che l'ha scatenata, ma il pensiero che c'è dietro. 
Scrivere a caratteri cubitali BASTA CON GLI UOMINI, VIVO CON UN'AMICA fa presupporre che io abbia sostituito gli uomini con le donne. Bizzarro meccanismo mentale, non trovate? È anche abbastanza evidente il desiderio pruriginoso di far intendere una relazione che vada oltre l'amicizia (sotto il titolo si legge Con lei, che si chiama Giordana, sto vivendo il legame più profondo che abbia mai avuto. In lei c'è qualcosa di Adriana, l'amica di cui mi innamorai da ragazza). 
Siamo donne e uomini di mondo, sappiamo che il gossip vive di sottintesi, di sicuro non ci scandalizziamo. 
Il pensiero che c'è dietro, invece mi scandalizza eccome. 
Secondo questo giornale l'omosessualità è un "ripiego". 
Veronica è stanca degli uomini e quindi va con le donne. Secondo loro questa è l'equazione. Secondo loro questa è la vita. 
Se fossi una donna omosessuale mi incazzerei parecchio, sapete? 
Come si permette questo mondo omofobo di pensare che l'omosessualità sia una "seconda scelta"? 
Dove sta scritto che l'eterosessualità è la strada che scegliamo per prima, anzi, peggio ancora, la strada giusta? 
Mi fa orrore il razzismo che trasuda questo titolo. 
Per la cronaca, Giordana, mia adorata e insostituibile amica, persona realmente di valore immenso e grande intelligenza che adoro, non mi ricorda affatto la buffa Adriana, simpatica e cicciotta educatrice dell'Oratorio che frequentavo da bambina. 
D'altra parte, se qualcuno di voi ha letto il mio libro MAI ALL'ALTEZZA, di Adriana sa tutto, e sa che razza di cotta mi presi per lei a undici anni! Si sa, gli ormoni a quell'eta' sono schegge impazzite...e meno male! 
Ma permettetemi di rubarvi altri cinque minuti per sottolineare un'altra cosa. E qui mi rivolgo soprattutto alle donne, mi scuseranno gli uomini ma chiedo loro un po' di pazienza. 
Avete notato che due donne non possono essere amiche, profondamente e visceralmente amiche, senza far pensare che ci sia sotto "qualcosa"? 
Ma davvero chi ha scritto questo articolo è così povero di immaginazione da non concepire che al mondo possa esserci una grande amicizia fra due persone dello stesso sesso? È necessario che fra le righe spunti un legame sessual/ amoroso? L'amicizia da sola non basta? Non convince? 
Non so voi, ma io conosco diverse donne che hanno rapporti bellissimi e intensissimi con altre donne senza andarci a letto. E mi stupisce che questi signori che scrivono sui giornali non sappiano come va il mondo. Si vede che il loro gira intorno ai pregiudizi di cui si nutrono. 
Amici miei, vorrei parlare ancora tanto con voi, mi conoscete, sapete che sono logorroica e nonostante ciò mi sopportate da tempo...ecco perché siete i primi a cui ho inviato queste mie semplici riflessioni. Aspetto le vostre. 
Vi ringrazio di avermi ascoltato e di essermi sempre vicini. 
Vi voglio bene e vi abbraccio forte 
Veronica

 

 

CORRIERE DELLA SERA

 

LA SMENTITA

Veronica Pivetti e il (falso) coming out: «L’omosessualità non è un ripiego, Giordana amica viscerale»

Veronica Pivetti smentisce quanto riportato nell’intervista pubblicata da Di Più. Sostituire gli uomini con le donne? «Se fossi omosessuale mi arrabbierei»

 

Coming out? Assolutamente no! Veronica Pivetti, dopo un’intervista rilasciata a Di Più, smentisce le ultime notizie sul suo conto: «Scrivere a caratteri cubitali “Basta con gli uomini, vivo con un’amica” fa presupporre che io abbia sostituito gli uomini con le donne», scrive su Facebook attraverso la sua fan page. «È anche abbastanza evidente il desiderio pruriginoso di far intendere una relazione che vada oltre l’amicizia», aggiunge Veronica entrando nel merito del suo rapporto con Giordana.

Il rapporto con Giordana

Nell’intervista pubblicata dal settimanale di gossip si leggeva: «Con lei, che si chiama Giordana, sto vivendo il legame più profondo che abbia mai avuto. In lei c’è qualcosa di Adriana, l’amica di cui mi innamorai da ragazza». Oggi però Veronica Pivetti precisa: «Per la cronaca, Giordana, mia adorata e insostituibile amica, persona realmente di valore immenso e grande intelligenza che adoro, non mi ricorda affatto la buffa Adriana, simpatica e cicciotta educatrice dell’Oratorio che frequentavo da bambina. D’altra parte, se qualcuno di voi ha letto il mio libro “Mai all’altezza” - aggiunge - di Adriana sa tutto, e sa che razza di cotta mi presi per lei a undici anni! Si sa, gli ormoni a quell’eta’ sono schegge impazzite...e meno male!».

«L’omosessualità non è un ripiego»

Veronica Pivetti punta il dito soprattutto contro un aspetto: «Mi scandalizza il pensiero che c’è dietro, secondo cui l’omosessualità sia un “ripiego”. Veronica è stanca degli uomini e quindi va con le donne. Secondo loro questa è l’equazione. Se fossi una donna omosessuale mi incazzerei parecchio, sapete?». E poi, rivolgendosi alle altre donne, ribatte: «Avete notato che due donne non possono essere amiche, profondamente e visceralmente amiche, senza far pensare che ci sia sotto “qualcosa”? Non so voi, ma io conosco diverse donne che hanno rapporti bellissimi e intensissimi con altre donne senza andarci a letto». 


Dal direttore di Dipiù riceviamo questa replica che pubblichiamo:

Gentile Signora Veronica Pivetti, 
Preciso subito che sono un suo ammiratore dai tempi di “Viaggi di Nozze”, fino ai giorni nostri quelli di “Provaci ancora Prof”. La mia stima professionale per lei è incondizionata. L’avevo anche per la sua persona, ma ora questa parte di stima è precipitata. Lei ha smentito, o comunque dice che è stata manipolata, una sua intervista pubblicata su “Dipiù” a firma della brava giornalista Stefania Mazzoni. Ma questo non mi ha indignato: dopo anni e anni di direzione di giornale sono abituato ai cambiamenti di umore dei personaggi dello spettacolo. Quello che mi indigna è altro: come si permette di definire folcloristico il Settimanale Dipiù? Preciso subito che il termine è offensivo e degno di querela, che, già le dico, non inoltrerò, mentre lei non può querelare per l’intervista, perché abbiamo le prove che è autentica e non è stata manipolata: la tentazione di metterla sul web per farla sentire a tutti è stata tanta, ma non l’ho fatto, perché non sarebbe stato corretto. Però, invece di smentire in maniera così chiassosa, poteva querelare e farci scrivere da un avvocato e noi, nelle sedi opportune, avremmo esposto le nostre ragioni e la nostra documentazione. E voglio dire subito che è lei, signora Pivetti, che ha voluto alzare un po’ di sana bagarre, ma, la prego, usi termini italiani: sano trambusto sarebbe stato più opportuno. E’ vero: noi siamo venuti da lei per fare promozione alla sua nuova fiction della serie “Provaci ancora Prof”. Il “Settimanale DipiùTV” lo fa sempre quando parte un nuovo programma. Ma poi la conversazione, per quella magica intesa che a volte scatta tra intervistato e intervistatore, si è spostata sul privato e lei ha detto quello che è stato pubblicato. La parte del privato, come spesso facciamo, l’abbiamo spostata su “Dipiù”, perché “DipiùTV” si dedica maggiormente a notizie televisive. Ma “Dipiù”, signora Pivetti, non è affatto folcloristico: è un prestigioso giornale familiare, molto moderno, erede di una tradizione antica, quella dei settimanali Oggi, Gente, Tempo, Epoca, la Settimana Incom. E’ diretto da un direttore di lunga data, che sono io, vincitore, fra i tanti riconoscimenti, del più prestigioso premio giornalistico assegnato in Italia, il Premio St. Vincent, che fra i tanti illustri premiati annovera anche i grandi Indro Montanelli e Enzo Biagi. Montanelli e Biagi, lei non può saperlo ma forse li ha sentiti nominare, erano in giuria quando io vinsi il premio. Su “Dipiù”, signora Pivetti, firmano da tempo rubrichisti celebri come Alberoni, Crepet, Rossi, Moccia, Bisiach, linguisti dell’Accademia della Crusca e de La Sapienza di Roma, e adesso anche Roberta Bruzzone, fra l’altro opinionista di punta di “Porta a Porta”. Per sapere che cosa è “Dipiù”, signora Pivetti, visto che lei non conosce il giornale, chieda anche a sua sorella Irene e, mi permetta un parere personale, la più grande della famiglia. Ha firmato più volte articoli su “Dipiù”: lei che è stata Presidente della Camera avrebbe mai potuto scrivere poi su un giornale folcloristico? 
Ma veniamo al contenuto principale della sua smentita: lei ci definisce omofobi, mentre mi pare di capire, ma potrei sbagliarmi, che l’omofoba è lei. Signora, lei precisa: “Se fossi una donna omosessuale, mi incazzerei parecchio.” Quindi non lo è. Ma perché precisarlo? Se fosse stata omosessuale cambierebbe qualcosa? Lei scrive più avanti: “Dove sta scritto che l’eterosessualità è la strada che scegliamo per prima, anzi, peggio ancora, la strada giusta?”. Ma che cosa è questa differenza, signora Pivetti? Solo gli omofobi pensano ci siano strade giuste o ingiuste: per noi, mi creda, qualunque strada prenda una persona fin dalla nascita è giusta. Lei dice che secondo “Dipiù” l’omosessualità è un ripiego. Ma questo l’ha detto lei: lo deduce da che cosa? Signora, il razzismo lo fa solo lei: è lei che ha parlato della sua amica Giordana e poi della giovane donna, Adriana, di cui si innamorò da bambina ma fra le righe dell’intervista pubblicata non trapela nessun legame sessual-amoroso. Certo, le è stata fatta la domanda: lei è innamorata di Giordana? E lei ha risposto: “Non so se si può chiamare amore.” Non capisco perché lei legga da qualche parte di un legame di sesso montato da noi. Vorrei tornare al concetto della bagarre, il trambusto: signora Pivetti, nessuno pensava di vendere copie in più con la sua faccia, perché, con tutto il rispetto per la sua professione, la sua non è una faccia da copertina: se lo lasci dire da un esperto. Però in copertina l’’abbiamo messa. E sa perché? Perché la sua intervista ci era sembrata così vera, così dolce e così semplice che abbiamo voluto dedicarle la copertina, non per vendere, ma per parlare di un problema sociale di cui ancora purtroppo si discute tanto nelle famiglie. Lei scrive come un’accusa rivolta a tutti: “Sappiamo che il gossip vive di sottintesi.” No, signora Pivetti ancora una volta lei si sbaglia. Quello che è apparso in copertina non è proprio un gossip. Mi dispiace per lei, donna intelligente, che lei liquidi con la parola gossip, un tema che sta a cuore a tanti. Questa risposta dovevo dargliela, anche se in tanti anni di direzione io quasi mai ho replicato a smentite o accuse se non in tribunale. Ma lei questa volta, proprio in vista della partenza di “Provaci ancora Prof”, precisando bene che il programma inizierà a metà settembre, ha alzato un polverone inutile: si sa, per gli ascolti è meglio parlare che ignorare. Il polverone, se magari porta qualche telespettatore in più alla fiction, però è offensivo per me e per tutti i giornalisti e lettori di Dipiù. Se la perderò come lettrice, me ne farò una ragione. 

Sandro Mayer

23 agosto 2017