10-7-2018
Lacci, di Domenico Starnone
NOTA DE LEITURA A recensão de Pedro Mexia no Expresso, que tomo a liberdade de transcrever a seguir, levou-me a ler este magnífico livrinho no original italiano no Kindle. Aliás, o título da recensão, o qual vem do 3.º parágrafo do n.º 4 do Capítulo 2.º do Livro 2.º (ufa!) seria um bom título também para o livro, embora mais banal do que “Laços”, por causa da alegoria dos atacadores, o segundo sentido da palavra em italiano. O livro teve muito sucesso. No início de Março de 2015, vendia em Itália mil exemplares por semana. Está já traduzido pelo menos em inglês, alemão (com título diferente), holandês, polaco, espanhol e agora português (também em edição brasileira). A linguagem é excelente e o livro lê-se com agrado crescente. Se lhe posso apontar uma coisita estranha é a facilidade com que o autor explica a disponibilidade material (monetária) dos seus personagens: a amante Lídia, apesar de ser ainda de menor idade, tem casa própria e meios de vida; o filho, Sandro, é sustentado pelas mães dos seus quatro filhos e Aldo, o personagem principal tem sempre lucros avultados das suas actividades.
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Expresso n.º 2384, de 7-7-2018
Laços, de Domenico Starnone, tradução de Vasco Gato, Edições Alfaguara
A ORDEM NATURAL DAS COISAS
Um homem de trinta e tantos anos, casado e pai de dois filhos, tem um caso extraconjugal, vive uns tempos com a amante e depois volta à mulher, que não mais abandonará, apesar de umas quantas infidelidades ocasionais. Podemos explicitar assim o enredo de “Laços” (2014) porque o enredo é-nos transmitido integralmente muito cedo. E porque se trata de um enredo banalíssimo, igual a tantos outros. O que singulariza “Laços” não é o que acontece a Aldo e a Vanda, mas o modo como Domenico Starnone (n. 1943) investiga a repercussão desses factos na cabeça de um e de outro e na cabeça dos filhos de ambos. Porque, como sabemos desde Tolstoi, cada casamento infeliz é infeliz à sua maneira.
Vanda sente o que sentem as pessoas traídas, quer dizer, fúria, decepção,
curiosidade mórbida. Recrimina o marido, acusa-o de ser mau pai, vitimiza-se.
Aldo, como cumpre a quem trai, entrega-se a mortificações e a justificações. Mas
o que é interessante é o modo como “os factos” se ligam à chamada “ordem natural
das coisas”. Que ordem é essa? É a ordem do casamento não como lugar de
felicidade mas como lugar de equilíbrios, negociações, “pesos e contrapesos”. É
a ordem (natural?) da mãe como “cuidadora” das crianças, como se o pai fosse uma
figura eventual, dispensável. E, por fim, a ordem dos tempos, das mentalidades,
uma vez que a traumática infidelidade aconteceu na década de 1970, quando o
casal, devidamente progressista, até acreditaria que a fidelidade é
“pequeno-burguesa” e que a repressão é uma atitude “mesquinha”. Como se diz a
dado passo, as “pulsões arcaicas acalentam-se sob o rouge da modernidade”.
Mais engenhoso ainda é o modo como se processa a dialéctica conjugal e
extraconjugal de estabilidade, tédio, efervescência, liberdade, culpabilidade,
recomposição e frustração. Não importa tanto o que correu mal naquele casamento,
antes o facto de ter sido um casamento “porque sim”. Uma verdade da qual Aldo e
Vanda estão conscientes, mas que só enfrentarão anos mais tarde, quase in
articulo mortis, com uma crueldade que lembra os romances breves de Elena
Ferrante (que se diz ser a tradutora Anita Raja, mulher de Starnone).
O desdobramento temporal também ajuda a superar a banalidade dos factos
exteriores, porque mostra que a alegria e o sofrimento são lugares secretos,
mentais ou materiais (objectos, fotografias), escondidos por uns, postos a
descoberto por outros, numa trama imprevisível. E, no entanto, certas coisas
nunca mudam: Vanda atribuía a sua infelicidade a um legado dos pais, e a geração
seguinte há-de queixar-se do mesmo, como se todos obedecessem a constatação de
Philip Larkin (“man hands on misery to man”).
É por isso que nos fica
na memória a alegoria um pouco fácil, mas
poderosa, dos laços, quer dizer, dos atacadores:
“Passámos [Aldo e os filhos] o resto do tempo a apertar e a desapertar os meus
atacadores e os do Sandro, até que a Anna, ajoelhada diante de nós os dois,
tivesse aprendido bem a apertá-los à nossa maneira. De vez em quando dizia: mas
é ridículo apertar assim os laços. No final, o Sandro perguntou-me: quando é que
me ensinaste? Decidi ser honesto: acho que não te ensinei, aprendeste sozinho,
observando-me. E, a partir daquele momento, senti-me culpado como nunca me
acontecera”.
Pedro Mexia
Pedro Mexia escreve de acordo com a antiga
ortografia
Archeologia di un matrimonio. Lacci di Domenico Starnone
Daniela Brogi
Quale memoria si conserva di un matrimonio sopravvissuto alla rottura? Cosa resiste al furto degli anni? Tra le tante storie materiali, tra l’accumulo dei discorsi, cosa lega davvero i singoli alla minacciosa cantilena dell’ «io ero…tu eri…»? E, soprattutto, quante realtà e quante narrazioni parallele vivono dentro il flusso uniforme dell’esistenza trascorsa sotto un medesimo tetto? Il romanzo di Domenico Starnone costruisce un edificio che dà spazio precisamente a questi dubbi, articolandoli sia tematicamente sia stilisticamente: per questo Lacci (Einaudi 2014) non è, semplicemente, un romanzo sulla crisi di un rapporto di coppia, ma un’opera che allestisce, attraverso se stessa, gli autoscenari di irrealizzazione di sé tenuti in piedi dai pilastri indistruttibili del matrimonio.
Per capire cosa questo significhi è necessario ripercorrere la vicenda proprio attraverso la struttura che le dà forma. Lacci si compone di tre pannelli (libri), ciascuno dei quali è gestito da una prima persona attraverso cui, nel passaggio da un blocco all’altro, si esprimono tre distinti personaggi che prendono voce in tre diversi momenti della storia, usando il tempo verbale privilegiato dal racconto in medias res, cioè il presente.
Nel primo libro la voce da cui parte il racconto entra in scena di prepotenza: la sua carta da visita non contiene un nome proprio, e dunque non possiede un’individualità, ma passa subito a qualificarsi per via di una relazione, vale a dire identificandosi totalmente in due connotati essenziali stretti in un corpo solo, cioè lo status coniugale e il tono sarcastico – puntiglioso della rivendicazione:
Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all’improvviso, ti dà fastidio (p. 5).
Appena prende familiarità col testo, chi legge capisce di trovarsi all’interno di un carteggio, ma si tratta di una narrazione a senso unico, senza alternanza di voci: tutta questa prima parte infatti contiene soltanto le lettere scritte da Vanda al marito. Siamo a Napoli, nel 1974: i due si sono sposati a ventidue (lei) e vent’anni (lui), nel 1962; hanno due figli: Sandro, nato nel 1965, e Anna, nata nel 1969. Al 1972 – la storia non lo dice ma lo sottintende – risale la pubblicazione italiana (per Einaudi) di uno dei libri che fecero epoca per la generazione dei due protagonisti, vale a dire La morte della famiglia (1971) di David Cooper; probabilmente, è proprio appellandosi al nuovo immaginario e ai cambiamenti della morale messi in circolazione anche da questo libro che il marito ha motivato il gesto di lasciare moglie e figli per stare con un’altra donna più giovane (« […] appena ho provato a reagire, mi hai bloccata, sei passato a discorsi generici sulla famiglia: la famiglia nella storia, la famiglia nel mondo, la tua famiglia d’origine, la nostra» (p. 7). Questo dossier di rimostranze arriva fino al 1978.
Nel secondo libro la narrazione si sposta su un altro personaggio, il marito, e in un successivo periodo, creando anche un nuovo testo, perché la distanza di tempo e di prospettiva disorienta il passo di lettura brevettato fino a questo punto, trasformando il libro da romanzo epistolare di una crisi a romanzo sulla rappresentazione di un matrimonio. Stavolta infatti l’azione risale a trentasei anni più tardi: siamo nel 2014, e a prendere la parola è Aldo – che ha un cognome, “Minori”, che fa risuonare una certa prossimità col cognome sveviano di Zeno “Cosini”, insinuando, al tempo stesso, la suggestione di una qualche somiglianza col protagonista della Coscienza. Anche Aldo è un campione di minieroismo, anche lui potrebbe avere il vizio delle bugie, come del resto molti altri personaggi di Starnone: per esempio il protagonista dell’Autobiografia erotica di Aristide Gambìa (2011), o quello di Labilità (2005) – romanzo, quest’ultimo, intitolato con un’espressione a cui sembra rimandare anche il nome del gatto di Lacci: Labes.
Aldo e Vanda sono sposati ormai da cinquantadue anni: «un filo lungo di tempo raggomitolato» (p. 28) che ha stretto i nodi del matrimonio, mentre invece il declino fisico ha indebolito il «sistema d’allarme» di Aldo, che si fa truffare da due furbastri. Hanno imparato a sopportarsi, a tacere, a dimenticare (« – Non ricordo più niente di noi – || Presi coraggio, chiesi: – Di noi quando? – || – Sempre: dal momento che ci siamo conosciuti fino a oggi, fino a quando morirò – »: p. 90). In occasione di una vacanza al mare Aldo e Vanna hanno affidato ai due figli la cura del gatto Labes (che «sta per la bestia», secondo quanto dice Aldo, e rappresenta «la tranquillità della casa»); i due si assentano per una settimana dalla loro bella abitazione di Roma – dove si sono trasferiti da molti anni grazie ai successi professionali ed economici di Aldo – ma al ritorno trovano una dimora ridotta in macerie dal passaggio dei ladri. Non è stato rubato nulla, ma tutto è devastato e fuori posto. Manca solo una cosa: il gatto. Eppure la preoccupazione maggiore di Aldo è che dal caos possa riemergere qualche traccia della sua antica storia d’amore e che la moglie possa scoprirla prima di lui: per questo passa la notte nello studio a ripescare tra i frantumi del proprio mondo domestico ciò che la memoria aveva scolorito da anni. Così, per esempio, comincia a riguardare le foto («ecco dunque ciò che mi risultava estraneo, la sua giovinezza. In quelle foto Vanda sprigionava un fulgore di cui io – ho scoperto – non conservavo alcuna memoria, nemmeno una favilla che mi permettesse di dire: sì, lei era così»: p. 53); si mette a rileggere fogli, libri, sottolineature, rincorrendo le convinzioni, i pensieri, le forme della coscienza legate a quelle vecchie tracce materiali della sua vita trascorsa, recuperando le rigidità ideologiche legate alle nuove battaglie contro la fedeltà in quanto valore piccolo borghese:
[…] Innamorato. Forse avrei dovuto dire proprio così: Vanda, mi sono innamorato. Invece mi espressi in un modo più brutale e tuttavia, a pensarci adesso, meno definitivo. […] Lei mi fissò esterrefatta e io stesso mi spaventai di quelle parole. Mormorai: avrei potuto nascondertelo, ma ho preferito dirti la verità. E aggiunsi: mi dispiace, è successo, reprimere il desiderio è meschino (p. 57).
A un certo punto Aldo ritrova e si mette a scorrere le lettere ricevute da Vanda all’epoca della loro separazione: quelle stesse che noi abbiamo già letto nella prima parte di Lacci. Ma adesso, nel Libro Secondo, possiamo ripensarle attraverso il controcanto della versione di Aldo («Voleva dimostrare – e non solo a me ma soprattutto a se stessa – che non sapevo e non potevo fare il padre fuori di lei, che escludendola mi escludevo»: pp. 68-69); la rabbia di Vanda, da questo nuovo punto di prospettiva, diventa smania disperata di autocelebrazione, gesto spavaldo e spaventato di un’identità femminile tutta compiuta nella funzione materna e nella performance continua di questa sua funzione– tanto che, a livello tecnico, in tutto il romanzo Vanda ha diritto di presenza solo attraverso la finzione delle lettere e dei ricordi gestiti dagli altri; è una figura di rimprovero a cui Aldo non sa reagire se non schivando gli urti – e facendo scempio delle altre due figure presenti da sempre: i figli. È a loro, e in particolare ad Anna, che dà la parola il terzo libro del romanzo, facendo ripartire l’azione dal 1978 per arrivare fino ad oggi: è il momento di rappresentare il matrimonio dalla parte degli anelli più deboli eppure più funzionanti della catena – ed è pure il momento di offrire la soluzione narrativa che qui non si svelerà. Attraverso Anna si completa la spiegazione del titolo del romanzo: Lacci, come i legami a cui costringe l’istituzione repressiva del matrimonio – secondo la vulgata di Cooper; ma l’espressione fa riferimento anche a una delle scene più belle del libro:
Anna mi chiese,
accennando al fratello: – È vero che gli hai insegnato tu ad allacciarsi le
scarpe? –
Mi imbarazzai. Avevo insegnato a Sandro ad allacciarsi le scarpe? Non me lo
ricordavo (p. 80)
I lacci sono anche i figli, usati per garantire il legame matrimoniale e ricomporre la famiglia, per far poggiare la tranquillità della casa sulle fondamenta sicure dell’ambiguità (Labes non sta solo per la bestia, come Aldo ha voluto far credere: è anche la parola latina per definire la rovina, il crollo). Sandro e Anna nella terza parte, finalmente, trovano il modo di raccontarsi quello che avevano vissuto senza poterlo mai dire: «I nostri genitori ci hanno rovinati. Si sono insediati nelle nostre teste, qualsiasi cosa diciamo o facciamo continuiamo a obbedire a loro» (p. 126). Non è tutta la verità, perché a fare la verità del libro è l’intreccio, la sconnessione continua dei piani narrativi e temporali, secondo un effetto di prospettiva destinato a rimanere sempre imperfetto. Ma va bene così.
LA STAMPA.it
12 novembre 2014
Tutto libri
narativa italiana
I lacci coniugali di Starnone
Come invecchiare insieme senza mai essere insieme, il bilancio tragicomico del matrimonio di Vanda e Aldo
Domenico Starnone Lacci” Einaudi, pp. 133
Domenico Starnone è uno scrittore atipico, un lupo solitario che vive la letteratura attraverso l’esperienza personale ma anche sul piano di una necessità sociale, calibrata sui toni della riflessione ironica e grottesca. Dai remoti – «malincomici» – fasti dei libri sulla scuola fino alla splendida impresa, forse sottovalutata, di Autobiografia erotica di Aristide Gambìa, Starnone ha messo in campo qualità eclettiche e sempre originali.
Anche questo nuovo romanzo, Lacci, stringato ed essenziale, appartiene al contesto dei libri che fanno riflettere attraverso il resoconto della semplicità. Un testo anomalo, quasi una pièce teatrale, in cui a turno entrano in scena i personaggi per raccontare la propria versione dei fatti, e cioè un comunissimo dramma familiare che tuttavia incide a fondo – e per sempre – sulle vite dei protagonisti.
A parlare sono, nell’ordine, Vanda e il marito Aldo, e poi si assiste a un dialogo-incontro tra i loro due figli, Sandro e Anna. Il tutto per definire, nell’arco dei decenni, il senso stesso di una famiglia, gli affetti come le dis-appartenenze. Sono le lettere scritte da Vanda ad Aldo a metterci di fronte, in apertura, a quello che sembra un doloroso fatto compiuto: Aldo se n’è andato con un’altra donna, Lidia, molto più giovane di lui. Ha abbandonato la moglie, sposata a soli ventidue anni, e i figli ancora in tenera età. Vanda mette Aldo di fronte alla sua perenne mancanza di responsabilità, ma dall’altra parte trova un muro di gomma, un uomo in bilico che addirittura non rivendica il diritto alla patria potestà, e da Napoli sparisce a Roma, verso una nuova vita.
La seconda parte, a sorpresa, ci mostra Vanda e Aldo oggi, entrambi ultrasettantenni, in partenza dalla loro bella casa romana per una vacanza al mare. Cos’è successo, ci domandiamo, visto che si accenna a mezzo secolo di convivenza, a figli maturi ma irrisolti, a esperienze di coppia che ora li trovano sulla soglia di una dignitosa vecchiaia. Qui è Aldo a raccontare, il presente ma anche il passato, e scopriamo che, semplicemente, la storia con Lidia era finita, il fedifrago era tornato all’ovile, aveva fatto carriera come autore televisivo e trascorso anni sereni al fianco della compagna di sempre. Tutto qui? Non proprio, perché l’analisi profonda dei fatti, dei sentimenti traditi – anche quelli tra padre e figli – dell’accettazione di sé come estrema risultanza di un cambio di rotta inspiegabile, travolge, commuove e lascia un segno, nella raffigurazione scarna di una vita di coppia da cui emergono quei dettagli che, come recita giustamente la quarta di copertina, «tengono in vita un matrimonio anche dopo l’amore».
L’occasione per riprendere in mano il passato avviene al ritorno dal mare, quando la coppia scopre l’appartamento a soqquadro, anche se all’apparenza non è stato rubato nulla. A parte il gatto, Labes, che sembra scomparso, anche se la figlia Anna aveva il compito di accudirlo. Frugando tra carte e documenti sparpagliati ovunque, emerge davvero – finalmente – la storia di coppia di Aldo e Vanda, con le consuetudini e i taciti accordi dietro i quali si è sempre celato lo spettro di un’altra vita. I due sono invecchiati insieme forse senza mai essere insieme, e il bilancio tragicomico del loro matrimonio si conclude con una piccola beffa che svela il mistero dell’alloggio devastato e del gatto scomparso, nell’ultima parte del romanzo in cui i figli si ritrovano da soli a casa dei genitori, e pur odiandosi a causa di un litigio per l’eredità di una zia, ripercorrono la loro storia familiare e soprattutto riflettono sui dispetti del destino, che talvolta convince un uomo, o una coppia, a fingere di vivere una vita che sarebbe potuta essere diversa, con qualche azzardo in più.
Lacci è una commedia leggera e disincantata, che si legge con gusto e malinconia.
Outros artigos sobre o livro:
Internazionale,
Imparare da Domenico Starnone, de
Link: https://www.internazionale.it/weekend/christian-raimo/2015/03/08/lacci-imparare-da-domenico-starnone
Minima & Moralia – un blog di aproffondimengto culturale
Il rumore profondo che fa un matrimonio quando si spezza di Annalena Benini, pubblicato mercoledì, 22 ottobre 2014 ·
Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/lacci-domenico-starnone/
Recensão no The New York Times de Rachel Donadio
Domenico Starnone’s New Novel Is Also a Piece in the Elena Ferrante Puzzle
https://www.nytimes.com/2017/03/09/books/review/ties-domenico-starnone-jhumpa-lahiri.html