10-6-2020

 

 La Storia, de Elsa Morante

 

 

 

 

NOTA DE LEITURA

Quando estava para perfazer 60 anos, decidiu Elsa Morante escrever um livro importante, um longo romance que contivesse a história da Itália no séc. XX.

Resultou um livro de 650 páginas, que teve um enorme impacto e vendeu em Itália um milhão de exemplares.

A escrita de Elsa Morante é muito bonita e têm de se admitir as suas liberdades na linguagem, sobretudo na linguagem das crianças.

Os intelectuais de esquerda não gostaram do livro que de facto se entretém muito com a miséria, a tristeza, a doença e a morte. Os personagens morrem todos no final do livro.

A autora quis fazer um livro completo, uma obra grandiosa e para isso, pôs lá tudo. Intervala descrições da situação política nos diversos anos em que decorre a acção, interrompendo a escrita literária.  Estas interrupções prejudicam o andamento da leitura.

As descrições são terrivelmente pormenorizadas. A certa altura, a autora começa também a descrever os sonhos das personagens sem que se saiba para quê.

Lá para o final do livro, o Useppe vai para a rua com a sua cadela. À falta de comparsas, a autora põe a cadela a falar com ele.

Parecem-me menos felizes as descrições do judeu Davide Segre que inicialmente se chamara Carlo Vivaldi e depois Piotr e depois morreu de overdose.

É uma “epopeia” sem heróis, os personagens morrem todos.

 

 

Edição Portuguesa: A História, tradução de José Lima, Editora: Relógio de Água, Dezembro de 2018

 

LIVROS:

- Università degli Studi Padova - Tesi di Laurea di Andrea Campiglio - 2014/2015 - La Storia di Elsa Morante. La prospettiva storico-politica del romanzo e il dibattito critico coevo.

- Università degli Studi di Catania- Tesi di Laurea di Erminio Alberti - 2012 - 2013 - La Storia di Elsa Morante tra dibattito critico e indagine filologica.

- Le Fonti in Elsa Morante, a cura di  Enrico Palandi e Hanna Serkowska, Edizioni Ca' Foscari - Veneza -2015

- Université de Strasbourg, Università di Pisa, thèse présentée par Caterina Sansoni - 2016 - Les personnages d’Elsa Morante - Construction, dimension sociale et dynamiques relationnelles des personnages dans l’œuvre romanesque d’Elsa Morante

 

 

ttps://www.sabado.pt/gps/palco-plateia/livros/detalhe/critica-de-livros-a-historia-de-elsa-morante

Crítica de Livros: A História, de Elsa Morante

14.01.2019 15:00 por Eduardo Pitta

 

Eduardo Pitta escreve sobre o mais famoso dos romances da escritora italiana, publicado em 1974 e agora traduzido por José Lima

É bom ter de volta a italiana Elsa Morante (1912-1985), tão arredia da edição portuguesa, ao contrário do marido, Alberto Moravia. O mais famoso dos seus romances, A História, foi agora traduzido por José Lima. À data do lançamento, em 1974, no auge dos anos de chumbo italianos, a celeuma em torno do livro dividiu a intelligentsia marxista. Pasolini, de quem Morante era amiga e colaboradora, foi um crítico violento. Nunca mais se falaram até à morte do cineasta.

Embora comece antes e acabe depois, A História centra-se na ocupação de Roma pelos nazis e, em particular, na história pessoal de Ida Ramundo, professora, judia, vítima de estupro (em sua própria casa) por um soldado alemão, bêbedo, incapaz de perceber que a epilepsia fizera Ida perder por momentos a consciência. Useppe, o segundo filho, nasceu em resultado. Mas o romance centra-se sobretudo na história da Europa do século XX.

Pontuam o livro cronologias detalhadas de convulsões políticas ocorridas entre 1900 e 1967. Como se não fosse possível perceber Ida sem conhecer os porquês das duas Guerras Mundiais, a República de Salò, o estalinismo, as bombas de Hiroxima e Nagasáqui, a vitória de Mao Tsé-Tung, o Muro de Berlim, a independência da Argélia, a crise dos mísseis soviéticos em Cuba, a guerra do Vietname, a onda de assassinatos políticos em Itália, o golpe dos coronéis em Atenas, etc. Na sua crueza, na ambiguidade das suas harmónicas ("Ela redescobria aquela sensação de realização…"), nem o capítulo da violação dispensa contexto histórico.

O relato do conflito é devastador. Morante tem uma escrita seca, precisa, capaz de, sem ênfase retórica, fazer o retrato vívido de personagens secundárias (como é o caso de Davide Segre) e, ao mesmo tempo, descrever acontecimentos terríveis em grande angular.

Inquéritos e listas valem o que valem, mas, segundo uma pesquisa feita em 1985 pelo jornal Corriere della SeraA História é (ou era) o mais lido e discutido dos romances italianos contemporâneos. Fora de Itália, é considerado um dos 100 romances mais importantes de sempre, em qualquer língua.

 

 

Natalia Ginzburg

http://193.206.215.10/morante/periodici/dibattito_sulla_storia/CORSERA_197400002.html

CORRIERE LETTERARIO

Appunti su “La storia”

I personaggi di Elsa

                                                CORRIERE DELLA SERA

                                                Domenica, 21 luglio 1974

Della “Storia”, romanzo di Elsa Morante vorrei parlare non come critico, cosa che io d’altronde non sono, e, nemmeno forse come comune lettore, ma vorrei parlare invece come romanziere, anche perché non mi sembra che nessun romanziere ne abbia parlato ancora.

“La Storia” è un romanzo scritto per gli altri. Ora da moltissimi anni, l’idea di un romanzo scritto per gli altri sembrava volata via della terra. L’idea degli altri da moltissimi anni , è un’idea che genera angoscia, perché gli altri appaiono irraggiungibili. Nei poeti, come Kafka o Beckett la sterminata lontananza degli altri e l’angoscia diventano un grande universo notturno, nel quale lo uomo riconosce se stesso. Ma quando sono assenti la poesia e la grandezza, ciò che resta è uno squallore sterile, fatuo e triste. Da moltissimi anni, i romanzieri scrivono unicamente per se. Scrivono per essere meno tristi, meno angosciati, meno soli. Il proposito o la speranza di scrivere anche per gli altri  qualche volta li sfiora. Però sentono che non ce la fanno, e d’altronde sono, tali speranze o propositi, in loro secondari. Essi scrivono essenzialmente per liberarsi dalla angoscia, ma in verità una tristezza immensa li assale, nell’atto stesso di scrivere, simile a una malattia o a una maledizione, e chi scrive a un tratto ha la misura precisa della propria solitudine, e sta stretto alla sua angoscia come all’unica sedia presente in una stanza vuota. Scrivendo, egli enumerare rapidamente dentro di se quante e quali sono le cose che avrà il coraggio di adoperare e toccare. Si accorge che sono pochissime, essendo egli timido e impaurito in presenza delle cose, e timoroso di uscire dai propri confini e di avventurarsi in luoghi ignoti. I suoi propri confini sono ciò a cui egli pensa con una sorta di timore ossessivo. Tocca le cose con mani fredde, convulse, schifiltose. Le tocca con avarizia perché gli sembra di possedere ben poco. Il toccarle e enunciarle gli dà insieme ribrezzo e vanagloria, perché faticoso, ed egli adora e odia le proprie fatiche. Le sue frasi hanno una cadenza triste, parsimoniosa e dolorosa. Simile cadenza porta il segno della sua angoscia, miseria e vanagloria. Porta i segni dei vizi del suo spirito. Egli non ha modo di pensare agli altri, perché assorto nei vizi del suo spirito. I luoghi che sceglie come ambienti per i suoi romanzi sono pochi e poveri. Sono abitualmente disabitati, perché oggi chi scrive ha orrore della specie umana. Una stanza: o un orto; o un cimitero: o un muro. D’altronde egli sa che quando ha cercato di muoversi in una direzione dove poteva incontrare gli altri, la sua voce era afona e i suoi gesti falsi.

ooo

Come romanziere, ho trovato straordinaria, nella “Storia”, l’assoluta assenza di quelli che sono oggi , nei romanzieri, i vizi dello spirito. Assente il ribrezzo, assente la vanagloria, assente la preoccupazione della propria miseria, dell’angustia dei propri confini. Assente ogni cadenza nelle frasi, essendo le parole spese a profusione, per gli altri, con immensa generosità e umiltà. Come romanziere e come comune lettore, il sentimento più forte e profondo che provo nei confronti della “Storia”, è un sentimento di infinita gratitudine.

Un romanziere, nella prigionia delle stanze o degli orti o dei cimiteri o dei muri, cioè nei piccoli mondi nudi e aridi che sono i romanzi dei suoi contemporanei, qualche volta può avvertire bisbigli o cadenze o suoni che gli sono amici, e riconoscervi dei filamenti o dei frammenti della sua angoscia e di se stesso. Egli si sente però, in questa sua fragilissima gioia, molto solo. Si rende conto che, in quei frammenti o filamenti d’angoscia, non si riconoscerà nessun altro, se non forse altri romanzieri come lui soli, e come lui fatui e tristi. Pr un romanziere, “La Storia” è una esperienza nuova e meravigliosa, perché egli vede che è stato creato, nei giorni presenti, un mondo nel quale tutti possono riconoscersi, creato per tutti e destinato a tutti. Avendo egli da moltissimi anni pensato e affermato che ciò era, nei tempi presenti, impossibile, ha la sensazione a un tratto che anche le cose impossibili accadono. Perciò ha la sensazione che si siano capovolte le montagne o che abbia cambiato di colore il mare.

 

« La Storia è un romanzo scritto in terza persona. Un romanziere oggi, della terza persona ha paura come di una tigre. Egli sa che nella terza persona, nell’egli, si nasconde ogni specie di pericolo. Scrivendo “io” si sente assai più sicuro, perché tutti i suoi limiti sono subito denunciati. Nella Storia, l’io narrante esiste, ma si affaccia solo ogni tanto, e nello spazio di poche righe. L’io narrante è però, nella Storia, importantissimo, e non denuncia dei limiti, ma è invece il punto da cui viene contemplato il mondo. È un punto insieme altissimo e sotterraneo, dotato di uno sguardo che vede l’infinita estensione degli orizzonti e le infime e minime rughe e crepe del suolo. Tale sguardo non conosce limiti, né in estensione né in profondità. Sceglie e raggiunge alcune delle più sperdute creature della guerra, segue il corso del loro destino e ne illumina la qualità misteriosa. In un simile sguardo, la felicità e la sventura, la vita e la morte, risplendono di luce diversa, ma è sempre luce. La tenebra non è nella morte, ma nei poteri oscuri della Storia, che decretano la morte e la sventura degli umili, gli stermini e le stragi. […] La sventura, la malattia, la pazzia, la morte sono offese orrende contro la felicità, l’infanzia e la vita, e tuttavia sono, nei confronti della felicità, dell’infanzia e della vita, in condizione di parità. Così, nella Storia, sono in condizione di parità gli animali nei confronti degli uomini. I meravigliosi dialoghi fra Useppe e la cagna Bella, quando essa evoca per lui i suoi cuccioli morti, il rapporto di felicità che nasce fra Iduzza, Ninarieddu e Useppe nelle stanze del quartiere di San Lorenzo, o il rapporto di felicità che nasce ancora fra la cagna Bella, Useppe e Scimò nella “tenda d’alberi”, ci rivelano l’universo in una dimensione che non avevamo mai conosciuto. […] In verità i personaggi della Storia non erano mai esistiti prima. Essi sono inseparabili l’uno dall’altro, e inseparabili dai loro destini, così come non si può pensare un grande quadro senza ogni suo minimo dettaglio e ogni suo minimo e riposto colore. Essi sono tutti, siano situati in primo piano o in secondo piano, egualmente essenziali. Ma il fatto nuovo, nella Storia, è che i personaggi non sono, fra loro, eguali ed essenziali e inseparabili soltanto perché dotati tutti d’una medesima vita poetica,, ma anche perché sono tutti pensati in condizione di parità. Così, il destino delle due gemelline che spariscono dallo stanzone avviluppate in carta di giornale, o il destino di Giovannino che incontriamo unicamente mentre sta per morire nella neve, o il destino della signora Di Segni che corre al treno e urla “Io so giudia! Io so giudia” per essere unita alla sua famiglia nella deportazione, o infine il destino di Davide, di Ninarieddu, di Iduzza e di Useppe, lasciano dentro di noi echi e solchi e vastità di spazi ben diversamente profondi, e ben diversi affollamenti di pensieri, domande, immagini e memorie, ma li pensiamo tutti con eguale misura di lagrime »

Il luogo della “Storia” è l’Italia. Si tratta di un’Italia nuova che non era stata mai raccontata prima. “La Storia” non ha delle rassomiglianze ma ha invece delle affinità.  Le sue affinità più profonde sono con Dostoievski e sembra che su questa Italia siano passate le ombre di Rogozin o di Dimitri Karamazov lasciandovi le loro impronte tragiche e gli echi delle loro voci che cercano e chiedono il vero. L’Italia della “Storia” è un’Italia tragica. È il luogo che il caso ha scelto come luogo di sventura e affollamenti di vittime innocenti e ignare, uno fra i luoghi della terra che hanno visto i convogli degli ebrei, il ghetto vuoto e prostitute uccise da misere mani desolate e eterne e fiduciose attese di soldati morti.

Il fatto che uno dei protagonisti della “Storia” sia Useppe ovvero un bambino, si sembra del tutto naturale, e solo dopo un poco ci accorgiamo di essere penetrati con Useppe in una dimensiona ignara e ignota. Generato dell’errore e dal caso, insidiato dal grande male, Useppe è nella “Storia” la innocenza festosa e ignara, e insieme l’onniveggenza a cui  non sfugge alcuna anche lontana sventura. Il destino e il pensiero di Useppe sono contemplati sia dell’amore della madre sia dallo sguardo alto e lontano che ne insegue con egual amore le orme leggere ed egli è per noi nello stesso tempo un essere famigliare di cui sappiamo i lineamenti e i giochi e le frasi e le passeggiate e anche il più segreto  e misterioso fra gli esseri che s’incontrano nella “Storia.”

Al termine della storia quando tutto sembra finito e concluso e tutto è irrimediabile sopraggiunge ancora Scimò ragazzo libero e severo padrone d’una sveglia  e d’una medaglia evaso dal riformatorio, imprendibile benché ricercato  e poi catturato , e la sua  breve e rapida apparizione è ancora felicità e un ultimo dono della sorte per Useppe e per noi. Scimò porta con se la felicità senza sorriso dei ragazzi maturati in libertà e per libertà, felicità indifferente e beffarda nei confronti del potere e che guizza fuori da ogni imposizione o prigione. Così all’ultimo sembra alzarsi, da questo romanzo disperato, una sorta di strana speranza .

Natalia Ginzburg

La Storia, di Elsa Morante, ed. Einaudi pp. 665, L. 2000

 

(Natalia Ginzburg, « I personaggi di Elsa », « Corriere della sera », 21 juillet 1974, sur le site internet Le stanze di Elsa,

 

 

 

    La Storia », d’Elsa Morante, une saga italienne au temps de la guerre

Avec un souffle exceptionnel, l’auteure italienne fait revivre les horreurs de la guerre dans une fresque à la fois historique et populaire. Un livre éblouissant. Cet article est paru dans « Le Monde » du 17 juin 1977.

Par FRANÇOISE WAGENER. Publié le 17 juin 1977 à 00h00 - Mis à jour le 21 juin 2019 à 14h20

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LA STORIA

Elsa Morante

1974. Première édition en français, Gallimard, traduction par Michel Arnaud (1977). Rééd. « Folio » (2004, 960 p.)

Zola ? Dostoïevski ? Soljénitsyne ? Pour aucun d’entre eux la littérature ne fut, n’est un jeu. Pour Elsa Morante non plus. Les mots, le moyen le plus sûr, le plus immédiat de toucher les autres. Le moyen le plus humain de les informer, de les appeler à partager, à comprendre. Eveiller, réveiller. Témoins ? Visionnaires ? Historiens ? Poètes ? Ils sont tout à la fois. Militants ? A leur façon, oui. Militants de l’humain.

Elsa Morante, « la » Morante, comme on dit à l’italienne, je ne connaissais que son nom, comme la plupart des Français. Et le fait qu’elle avait été la première femme de Moravia. Jamais vue, jamais lue. Un seul article au dossier du Monde, un entretien avec Michel David lors de la sortie de Mensonge et sortilège, un gros roman qui avait eu le prix Viareggio en 1948, et qu’on traduisait ici vingt ans après (voir Le Monde des livres du 13 avril 1968).

    Une écrivaine mystérieuse

Comment déchiffrer cette énigme : qui est la Morante ? Il y avait ses livres, des informations glanées ici ou là, une ou deux prodigieuses photographies. A défaut de pouvoir l’approcher, la sentir, l’inventer au plus près. Et le plus près, c’est ceci : la Morante a la réputation d’être sauvage, rétive à toute relation avec l’inconnu, amoureuse de la réclusion, comme la plupart de ses personnages. Vivant « dans un attico sur les toits soufrés de Rome, dans le quartier populaire du Testaccio, entourée de ses chats ». Ecrivant. Née avant la première guerre mondiale, écrivant depuis l’âge de 14 ans. Mi-sicilienne par son père (Morante est un nom espagnol), mi-modenane par sa mère, ce doit être une femme déroutante, avec quelque chose de barbare, d’archaïque, de préchrétien au sens où le Sud est préchrétien, comme l’entendait Carlo Levi.

Mixte comme ses principaux personnages, absolue comme eux. Quelque part du sang juif, sinon comment expliquer les accents si puissamment authentiques du Châle andalou, un recueil de nouvelles plus fortes les unes que les autres, surtout la première, où l’on voit une petite fille, dans un temps qui n’est plus le nôtre, « interroger avec effroi, sous l’ombre du juge, parmi les muets… ». Sinon comment expliquer les terreurs secrètes de l’Ida Mancuso, de La Storia, et celles de sa mère, juive, assujettie « à un dieu vindicatif et justicier qui l’épiait »… Un goût avoué pour le théâtre. Voir le Jeu secret (dans Le Châle andalou, toujours) où trois enfants, dans une demeure aristocratique et décrépite d’une petite ville du Sud, vivent par procuration dans les rôles qu’ils « jouent » en cachette, rôles empruntés à leurs lectures (romans de cape et d’épée).

Une fascination devant les mystères de la vie, l’amour, la maternité, la mort, et jamais plus fortement exprimée que par l’adolescent de L’Ile d’Arturo (prix Strega 1957), son meilleur roman peut-être. Qui se déroule à Procida, une petite île de la baie de Naples, entre une forteresse transformée en maison de correction et une demeure patricienne et paysanne déchue.

La peur de la vie. L’appel de la vie. La névrose et l’écriture. La compassion élevée au rang de catégorie esthétique. Il y a tout cela, aussi, dans Mensonge et Sortilège : les conflits sociaux intériorisés dans la réclusion mystificatrice d’une héroïne petite-bourgeoise (bien que née noble) et qui, rongée par un amour impossible et une mésalliance, se consume dans les faubourgs d’une autre (et anonyme) petite ville du Sud.

Aujourd’hui La Storia. La Storia qui reprend ces variations et les magnifie en un acte d’amour de six cent douze pages. La Storia, premier grand succès d’Elsa Morante en Italie, publié directement en livre de poche il y a deux ans, dont les tirages atteignent presque le million, et qui suscita dans les salons littéraires romains – la presse suivait – des polémiques passionnelles. Peut-être parce que La Storia, nous ramenant à Rome, au temps de la guerre, touchait un certain nombre de points sensibles chez les Romains, comme la lâcheté des notables envers la population juive, raflée et quasi exterminée entre l’automne 1943 et le printemps 1944.

    Tour de force

Peut-être aussi parce que la Ville éternelle ressentit inconsciemment comme un scandale qu’on ose écrire l’Histoire, son histoire, à travers une chronique réaliste de la vie dans ses quartiers populaires. La petite histoire, ou l’histoire des humbles, contenant la grande aux yeux d’Elsa Morante, et la condamnant.

L’histoire du monde en ces années-là (1941-1947) – les chapitres du livre sont chronologiques et précédés d’un résumé panoramique des principaux événements internationaux) – semblait « un interminable assassinat ». Quel tour de force pour l’écrivain (et le témoin) d’en dire les échos affaiblis et tragiques dans l’esprit borné d’une pauvre institutrice du Testaccio, terrifiée d’être à demi-juive, usée de devoir assurer sa survie, et celle de ses deux enfants, surtout le second, né d’une étreinte forcée avec un soldat allemand à l’aube de l’année 1941. Quel tour de force d’avoir, jusqu’à la mort du petit garçon, en juin 1947, fait converger et diverger les grands axes historiques comme vers une même fin hallucinante : l’anéantissement de ce petit bâtard, trop vivant et trop sensible pour ce monde-ci…

A travers l’histoire d’une vie, celle d’Ida Mancuso, toute l’Italie d’alors défile. Des rêves proudhoniens du père d’Ida aux anxiétés neurasthéniques de sa mère juive, de sa propre résignation aux engagements successifs de son fils aîné Nino (il a 14 ans en 1940, et d’« avant-gardiste » il deviendra partisan, puis trafiquant jusqu’à sa mort violente), des traumatismes de l’enfant Useppe aux luttes collectives des sinistrés ou solitaire d’un jeune anarchiste drogué, une seule et même souffrance meut les êtres et les mots.

Tous ou presque finissent par mourir. Mais ce qui sauve ce livre en noir et blanc, c’est le don époustouflant qu’à « la » Morante pour exprimer la vie, plus encore que la mort. Qui, mieux qu’elle, sut décrire l’enfance ? Pas même Henry James, dont les personnages enfantins sont des petites grandes personnes trop perverses et trop subtiles à côté de l’Useppe de La Storia. Dire l’éveil au monde, au langage, à l’amour, du petit garçon, ses rêves, ses jeux, ses premiers apprentissages, ses dialogues avec les animaux, sa douloureuse incompréhension du mal (le « haut mal », l’épilepsie, qui finira par l’emporter), jusqu’à son « pourquoi » lancinant qui vous bouleverse et vous poursuit, autant de paris tenus et gagnés par Morante, avec les mots, avec le cœur, avec l’être même.

Ce substrat humain donne au livre un souffle exceptionnel. Et que dire de la beauté visionnaire de certaines pages, un suicide délire sur une plage du Sud, une promenade échevelée dans le ghetto déserté, les errances du petit garçon et de sa chienne Bella, du côté de Portuense ? Celles-ci vous entraînent et vous élèvent très haut. Car La Storia, oui, est un livre dont on sort grandi : il pose les questions clés de l’existence.

La traduction française, malgré des maladresses, ne gêne pas une lecture qui engage constamment. La Storia est un livre marquant. Cela seul compte.

La Storia, d’Elsa Morante (1974). Première édition en français, Gallimard, traduction par Michel Arnaud (1977). Rééd. « Folio » (2004, 960 p., 13,30 €).

 

http://culturaincircolo.blogspot.com/2019/09/recensione-del-romanzo-la-storia-di.html

 

lunedì 2 settembre 2019

 

RECENSIONE DEL ROMANZO "LA STORIA" DI ELSA MORANTE

 

Considerato uno dei principali capolavori della letteratura del Novecento, La Storia è sicuramente il  romanzo più importante della scrittrice italiana Elsa Morante.

Si tratta di una storia che ci mostra la vita nel momento più buio della storia d'Italia, gli anni tra il  1941 e il 1947, quindi nel pieno della seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra. 

La Storia ci racconta le vicende di una donna, Ida Ramundo. Vedova, è madre di un figlio, chiamato  affettuosamente Ninnuzzu. Un giorno Ida viene stuprata da un soldato tedesco ubriaco e da questo  rapporto non voluto nasce il piccolo Giuseppe, che verrà chiamato da tutti Useppe.

Il romanzo ci mostra la vita della povera Ida, semplice maestra elementare costretta ad arrangiarsi  per tirare su i due figli. Vive isolata, preoccupata per l'irrequietezza adolescenziale di Ninnuzzu,  affascinato dal lavaggio del cervello operato dai fascisti sui giovani dell'epoca, e terrorizzata dallo  scandalo che potrebbe suscitare la scoperta del figlio nato al di fuori di un'unione ufficiale.  Inizialmente nasconde il piccolo Useppe allo stesso Ninnuzzu, poi però le sue preoccupazioni si  rivelano infondate quando il ragazzo scopre casualmente il pargolo e lo accoglie con gioia, senza  preoccuparsi delle circostanze del suo concepimento.

Sebbene proceda tra mille difficoltà e tanti stenti, la vita della famiglia scorre piuttosto tranquilla. La  situazione precipita quando anche Roma diventa bersaglio dei bombardamenti e Ida, come tanti,  perde la casa e si trova costretta in un alloggio comune.

Il romanzo procede narrando le vicende di questa famiglia tanto comune quanto sfortunata  attraverso la guerra, che a tratti irrompe violentemente nella loro vita come accade col  bombardamento della città, le inquietudini dell'immediato dopoguerra e i problemi di salute dei  protagonisti. 

Come tutti i grandi romanzi, La Storia divise nettamente la critica all'epoca della sua uscita. Per  molti la Morante fu colpevole di voler speculare sul dolore e spargere pessimismo, altri invece  videro nella sua opera il tentativo di consolare un dolore acuto con delle lacrime edificanti.

Da lettore, io credo che entrambe le critiche siano ingiuste. Nel romanzo di Elsa Morante io ho  trovato solo il tentativo di analizzare un periodo storico complesso e doloroso non dal punto di vista  dell'ideologia politica, come si faceva tanto negli anni Settanta (il romanzo fu pubblicato nel 1974),  ma da quello umano. L'autrice ha preso delle persone normali, una mamma e due bambini, li ha  calati nella realtà storica e sociale degli anni Quaranta e ha mostrato quello che è successo. Le  lacrime suscitate dal libro non sono colpa della Morante, sono una precisa responsabilità di chi  causò tutto quel dolore a della povera gente che voleva solo vivere la propria vita.

I protagonisti sono delle persone normali come ce ne potevano essere milioni all'epoca della  vicenda. Ida è una mamma piena di ansie e paure, cresciuta con una mentalità un po' provinciale,  che della storia e della politica non si interessa ed è preoccupata solo di assicurare una  sopravvivenza dignitosa ai propri figli. Ninnuzzu è un giovane adolescente pieno della voglia di  vivere tipica della sua età, passionale e volubile, incline alle passioni, ama la vita e fa di tutto per  viverla appieno, finendo per fare anche delle scelte pericolose e sbagliate. Useppe è un bambino  che vive in un mondo sospeso a metà tra il sogno e la realtà, come capita a tutti i bimbi piccoli, ed è  fortemente influenzato da gravi problemi di salute. 

La capacità principale di questo libro è quella di mostrare come la storia irrompa prepotentemente  nella vita delle persone semplici e butti tutto sottosopra, senza riguardi e senza pietà.  Ida è una semplice maestra, a differenza del padre si disinteressa completamente della politica, tira  a campare e basta. Non manifesta fede politica, quindi non ha colpe né dirette né indirette circa la  dittatura, la guerra e tutto ciò che ne consegue. Nonostante ciò, la politica, la storia e la guerra  irrompono nella sua esistenza, le danno a forza un figlio, le distruggono la casa, le fanno vivere con  terrore le sue lontane origini ebraiche, le rubano il lavoro e alla fine le impongono l'atroce dolore del  lutto.

Anche Ninnuzzu è una vittima della storia. Un adolescente come tanti, viene sottoposto al lavaggio  del cervello che i fascisti facevano ai giovani, così in lui nasce la voglia insana di combattere in  prima linea per il regime. Le circostanze lo portano poi a combattere coi partigiani contro il  fascismo. Dopo la guerra, prende coscienza del suo essere pedina della storia e cerca di liberarsi,  dichiarando apertamente che con la caduta del regime fascista sono cambiati solo i capi (che lui  chiama Caporioni) e non la sostanza delle cose, decidendo di non voler combattere per nessun  ideale, ma di voler solo vivere. 

Oltre a mostrarci l'impatto della storia sulla povera gente, Elsa Morante con questo romanzo ci  mostra uno scorcio della vita nel nostro paese, riuscendo così a svolgere anche una preziosa  funzione divulgativa.

All'inizio di ogni capitolo, che copre un anno, la scrittrice racconta gli eventi mondiali inerenti la  guerra e le varie rivoluzioni. Questo le permette di trascurare quest'aspetto nello sviluppo della  vicenda dei protagonisti, ci fa conoscere il contesto storico in cui si muovono, ma allo stesso tempo  ci ricorda che loro di tante cose a stento sentono dire, c'è molta differenza tra ciò che sanno e  quello che effettivamente accade nel mondo. Giusto per fare un esempio, del massacro degli Ebrei  Ida ha solo informazioni frammentarie derivanti da voci che circolano, la questione non viene  assolutamente approfondita.

Ci sono poi, soprattutto nella parte iniziale, delle considerazioni dell'autrice sul fascismo e su  Mussolini che inquadrano alla perfezione il personaggio e il suo impatto sulla storia d'Italia. Pagine  che meritano di essere lette sia per il contenuto che per il modo in cui sono scritte. 

Un personaggio molto importante di questo romanzo, sebbene non sia uno dei protagonisti, è  Davide Segre.

L'importanza di Davide si manifesta sia attraverso le sue azioni, sia attraverso i ricordi del suo  passato.

Grazie a Davide Segre, conosciamo la delusione che nel dopoguerra vissero i comunisti e gli  anarchici che avevano visto nella lotta partigiana la tanto attesa rivoluzione. Finita la guerra lui, che  aveva appunto creduto di fare la rivoluzione nel momento in cui aveva partecipato alla Resistenza,  si accorge che la miseria della povera gente rimane inalterata anzi, è acuita dalle cicatrici lasciate  dalla guerra e dalla lunga dittatura. La grande rinascita del proletariato non avviene e Segre va in  crisi.

Davide, da sempre convinto anarchico, ha anche un passato come operaio. Ricordando questa sua  parentesi lavorativa, scelta proprio per conoscere le condizioni della categoria che voleva  difendere, lui che era di famiglia borghese, ci mostra senza filtri la condizione disumana degli operai  nella prima metà del Novecento: così sfruttati e stanchi da non avere neanche la forza di pensare a  una realtà diversa, ridotti alla condizione di larve che pensano solo alla sopravvivenza.  

L'ultima realtà che l'autrice ci rivela attraverso l'esistenza di Davide Segre, forse la più dura, è  quella dell'uomo comune che ha combattuto una guerra. Imbruttito dalla violenza che lo circondava  e dai lutti subiti, in guerra Davide Segre si era rivelato spietato; ricorda precisamente quando uccise  un soldato tedesco ormai disarmato a calci in faccia, ne ricorda la disperazione e il pianto. Immersi  in un contesto di violenza, si tende a diventare bestie, un po' per paura e un po' per disperazione;  quando la guerra finisce e si torna alla normalità, quei ricordi tornano a lanciare delle accuse da cui  non ci si discolpa facilmente. Davide ricorda quell'episodio e questo lo distrugge; qui vediamo il  dramma di chi, costretto alla guerra, è spinto a disumanizzarsi, per poi pentirsene una volta tornato  ai tempi di pace.  

La depressione causata dai sensi di colpa e dalle delusioni politiche portano Davide a cadere nel  tunnel della droga. 

Oltre che per le tematiche delicate e importanti, La Storia è secondo me un grande romanzo proprio  per il modo in cui è scritto.

Leggere queste pagine di Elsa Morante è come sedersi di fronte all'autrice e sentirle raccontare con  calma tutta la storia.

Le opinioni politiche, quando ci sono, vengono espresse senza eccessi di  retorica e i momenti drammatici, che nel romanzo non mancano, sono descritti senza eccessi di  sentimentalismo. Nonostante ciò, ci sono delle pagine che ritengo magistrali; secondo me, la  descrizione della morte di Giovannino in Russia, della sua stanchezza e delle sue allucinazioni,  rappresenta forse il miglior pezzo di letteratura nella storia. Alla luce di quanto ho detto sopra, credo che La Storia sia un romanzo che tutti nella vita debbano  leggere almeno una volta.

Francesco Abate

 

 

Archivio di REPUBBLICA

CHE SCIOCCHEZZE SULLA MORANTE

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1995/03/21/che-sciocchezze-sulla-morante.html

di NELLO AJELLO

21 marzo 1995 

 

Inizio d' estate del 1974, ventun anni fa. Arriva in libreria La Storia di Elsa Morante. Avendolo letto in anteprima, scrittori, critici e ideologi vari già litigano intorno al libro. Chi vi scopre un ritorno ai modi narrativi del neorealismo. Chi vi scorge un surplus di lacrime. Chi trova l' opera illuminante. Chi leziosa. Chi decadente. Chi ci vede l' esempio di una nuova narrativa popolare. Chi la considera un "romanzone" piccolo-borghese. Chi la giudica in contrasto con le direttive "marxiste e proletarie". Chi s' affretta a stroncarla e chi invoca dieci anni di moratoria per vederci chiaro. La violenza delle polemiche è pari all' attesa che il libro ha destato. Natalia Ginzburg ha dichiarato che, aspettando La Storia, le sembrava "di non aver più voglia di leggere nessun libro". Poi saluta commossa l' evento: "Un venerdì", annota, "esattamente il venerdì ventuno di giugno, il romanzo mi è finalmente arrivato"... La polemica dilaga sul Manifesto. L' Espresso organizza un "pro e contro", mentre La Fiera Letteraria va sul concreto: "E' o non è un capolavoro?". Alla ricerca di precedenti letterari ugualmente esplosivi si risale al Metello di Pratolini (1955) e al Gattopardo (1958). Mai, però, così. Il 1974 è tempo di ideologia a cascate, albeggiano gli "anni di piombo". E sotto le più raffinate discussioni stilistiche si nasconde la vera discriminante: se La Storia (per dirlo brutalmente) vada considerata di destra o di sinistra. Infine, dopo vari mesi di inquinamento acustico, vent' anni di "silenzio di tomba". Così sostiene Cesare Garboli. Nell' introduzione che ha scritto per la nuova edizione del romanzo (uscirà a giorni da Einaudi, corredata da un elenco dei principali interventi d' epoca, a cura di Irene Babboni), Garboli definisce La Storia "un romanzo criticamente abrogato". Un Lazzaro letterario che ha poca "voglia di resuscitare". E allora perché contribuire, con questa prefazione così appassionata, a un suo ritorno?  

"L' accenno a Lazzaro che non vuol risorgere va preso come una battuta", chiarisce lo scrittore. "Vuol dire soltanto che Elsa si congedò dal mondo, nel 1985, portando con sé una grande delusione. In gioventù era una scrittrice innamorata del suo tempo. Questo entusiasmo l' ha animata fino al Mondo salvato dai ragazzini, che è del 1968. Dopo, c' è stata una svolta, un litigio con la vita, dalla quale la scrittrice si congeda volentieri. Se ne va e non tornerebbe indietro - posso dire così? - neanche morta. Ha dimenticato se stessa, i suoi libri e il mondo intero. Così è la Morante degli ultimi anni". Il critico la rievoca con molta pietas. Da amico. "Vorrei risarcirla di tutte le sciocchezze che hanno detto su di lei", dichiara. "Segnare dei punti fermi, piantare dei paletti. Saldare un debito: evitare che, come capitò vent' anni fa, ciascun recensore utilizzi ancora La Storia per farsi l' autobiografia, attingendo alle proprie riserve di insensatezza". Per Garboli, il silenzio durato vent' anni non è stato casuale. "Quel fracasso, quel frastuono, quella comica caccia alla fattucchiera" avevano, nel ' 74, radici politiche. "L' estrema sinistra italiana, quella dei passamontagna e degli espropri proletari, s' inviperì di fronte alla Storia. Un libro dominato da un' ideologia anarchica e non-violenta toglieva spazio a certi deliri. Come se un fatuo pranzo di gala fosse stato disturbato dal rumore dei vagoni piombati. Un' intrusione. Si decise allora di considerare quel romanzo un' esplosione di pietismo". Vent' anni fa, Garboli lesse La Storia come un libro "indignato, ribelle, polemico". Riprendendolo in mano, vi scopre tesori di humour. "E' che lei amava i romanzi cavallereschi. Sulla prima parte dell' opera soffia un' aria picaresca, avventurosa, a tratti comica. Il dolore s' addensa nella seconda metà. La guerra è finita. E Roma, invece di risorgere, diventa un deserto, un luogo incapace di felicità, nel quale si aggirano la protagonista e suo figlio Useppe. E' un grande colpo narrativo. La musica della Storia diventa, così, un requiem". La scrittrice sembrava, all' epoca, condividere certe tesi sessantottesche di Pasolini: lo spettro dell' alienazione, il terrore dell' omologazione, e così via. Tutte cose che sono agli antipodi dell' umorismo... "Certe analogie con Pasolini sono di facciata. In Elsa non c' è il cattolicesimo dello scrittore friulano. Lui era un prodotto culturale degli anni Cinquanta. Le radici della Morante affondano invece in una realtà più antica. Lei proviene da Verga. La sua poetica è veristico-fantastica. Veristico è il suo sistema topografico e sociale. Nella sua narrativa non compaiono mai né l' Italia del nord né la borghesia progredita. I suoi luoghi sono Roma, Orvieto, Procida, la Sicilia. E i personaggi rientrano in un' anagrafe riconoscibile: signori, burini, cafoni. Verga, ripeto. Ma anche Kafka. Da lui trasmigra nei libri di Elsa una piccola borghesia che ha poco a che fare con il mondo moderno e l' etica dei consumi. Patetici impiegati, colmi di incubi e di sogni". Si leggeranno presto, queste idee, in un libro che Garboli ha dedicato alla scrittrice romana. Che egli giudica - si sarà capito - una delle voci più importanti nella letteratura italiana del nostro secolo. "Nella Storia, Elsa ha demolito il romanzesco. I tre temi portanti del libro - gli animali, gli ebrei e i sogni - rientrano nelle stesso schema: la dispersione del senso vitale. Gli animali non hanno destino. E i sogni, dove vanno? Senza futuro sono gli ebrei discriminati. Per farla breve, i destini individuali, che formano il lievito tradizionale del romanzo, non trovano posto nella Storia. Dopo Auschwitz, proclamò Adorno, non si possono più scrivere poesie. E neppure romanzi, sembra aggiungere Elsa. E concludere: questo che io scrivo è l' ultimo". Il testamento di una scrittrice? "Non solo. Io ci vedo anche un presagio sul nostro presente. Oggi noi non possiamo dirigere gli eventi. Galleggiamo come sugheri impazziti su quel che accade. Le onde ci superano, vanno oltre. Ecco: La Storia ha detto questo".

 

di NELLO AJELLO

21 marzo 1995

 

 

 

Pier Paolo Pasolini  su “La Storia” di Elsa  Morante

Pubblicato il  21 agosto 2013 

L’ultimo romanzo di Elsa Morante è un poderoso volume di 661 pagine, e il suo  «soggetto» è proprio quello che dice il titolo, cioè la Storia. E difficile concepire un  progetto più ambizioso di questo: ma si tratta di un’ambizione evidentemente  giustificata, se la sola ambizione ingiustificata è quella di scrivere opere limitate e  perfette. Illimitatezza e imperfezione sono caratteri della necessità. Illimitato il  romanzo della Morante lo è, perché esso indubbiamente trasborda oltre il confine  delle 661 pagine, verso immensità di temi, motivi e superfici non verbali. Imperfetto  anche lo è. La Morante avrebbe forse dovuto lavorarci ancora un anno o due.  Infatti non c’è dubbio che il grosso libro si divide almeno in tre libri  magmaticamente fusi tra loro: il primo di questi libri è bellissimo – è  straordinariamente bello – basti dire che mi è capitato di leggerlo nel bel mezzo di  una rilettura de I fratelli Karamàzov e che reggeva mirabilmente il confronto! Il  secondo libro invece è completamente mancato, non è altro che un ammasso di  informazioni sovrapposte disordinatamente, quasi, si direbbe, senza pensarci  sopra; il terzo libro è bello, benché molto discontinuo e con molte ricadute nella  confusione un po’ presuntuosa del libro di mezzo.   

Nel primo libro si narra la storia dei padri, visti addirittura come antenati: l’azione è  in un «altrove» (la Calabria) che corrisponde alla dislocazione del tempo della  narrazione in un periodo «anteriore», già completamente elaborato e quindi  cristallizzato dalla morte. Quivi gli avi vivono circostanze e azioni perfettamente  essenziali, poetizzate già dal fatto di appartenere al passato: possono quindi  cadere sotto il completo dominio dell’autrice che ha la ventura di essere in vita e di  conoscerle. Sia il ramo calabrese (il padre Ramundo) che il ramo ebreo (la madre  Almagià), con la loro cerchia, occupano spazi e tempi perfetti. La loro morte non è  ideologica, se non in quanto appartenente al mito. Essa consente dunque alla loro  vita, finita, di essere totalmente espressa: di essere quella e non altra. 

Tutto questo «libro» è un enorme excursus che sta tra l’incontro di un soldato  tedesco con Ida al quartiere di San Lorenzo nel 1941, e la violenza che egli  esercita su di lei: violenza da cui avrà poi la ventura di nascere un figlio bastardo  (mentre lui, il ragazzo bavarese, morirà qualche giorno dopo). Potremmo però  protrarre questo libro – stupendo – fino alla nascita del bastardello Useppe, nascita  legata agli ansiosi sconfinamenti della mezza ebrea Ida nel ghetto romano. 

Il secondo libro va dalla nascita del bastardello al bombardamento di San Lorenzo,  allo sfollamento di Ida e del cucciolo Useppe nella casermetta di Pietralata, alla  resistenza anarchico-comunista (alla spagnola), in cui si fa luce il figlio, diciamo  così, di primo letto di Ida, Ninnarieddu, insieme con un altro protagonista del libro,    Davide Segre, ebreo. (Nella casermetta di Pietralata si ammassano però molti altri  personaggi le cui storie danno al racconto un carattere corale, esteriormente  neorealistico). La guerra finisce, Ida si trasferisce col figlio a Testaccio, dove  compare e riscompare l’altro figlio grande, il seduttore (teppista, ex fascista, ex  comunista, ex anarchico, borsaro nero rivoluzionario – un po’ retrodatato, per la  verità, come il suo amico Davide). 

L’ultimo libro è il Libro delle morti. La guerra è finita, ma tutti i nostri personaggi  muoiono dopo. Prima tocca al trionfante, al vivo per definizione, Ninnarieddu; poi a  Davide Segre; poi al piccolo Useppe, divenuto epilettico, e infine alla «povera di  spirito» Ida. Erano però antecedentemente morti quasi tutti gli altri personaggi  minori. 

L’insieme del romanzo si configura come un confronto tra la vita e la Storia: tra un  capitolo e l’altro del romanzo (concepito ad annali) ci sono infatti brevi inserti che  riassumono gli avvenimenti storici oggettivi – con stile da manuale – dal 1941 al  1967. Nel «primo libro» questa è una trovata, diciamo «strutturale», straordinaria.  Perché? Perché la vita che si oppone alla Storia è una vita di morti, e quindi una  vita non esaltata e strumentalizzata in quanto tale. C’è una reale incompatibilità tra  essa e la Storia. L’opposizione non può essere dialettica: e quindi non rischia di  essere ideologica e velleitaria. Le cose stanno così e basta: il confronto tra la vita  dei morti e la Storia produce stupendi effetti allucinatori (come il grande «adagio»  della morte della madre di Ida). 

Poi questo «effetto» della contrapposizione della vita alla Storia, di colpo si perde e  scade. Tale degradazione del testo coincide con la nascita del piccolo Useppe:  cioè col formarsi di una vita «esaltata e strumentalizzata in quanto tale». Perché è  con Useppe che comincia la lunga celebrazione morantiana della vitalità,  dell’innocenza, della joie de vivre dei poveri di spirito. Useppe ne è il simbolo: ma  anche tutti gli altri personaggi che in questo periodo (della vita e del romanzo) lo  circondano, ne sono forme e varianti. Prima di tutti, il fratello maggiore Nino (di cui  Useppe si innamorerà perdutamente). Anzi, Nino si presenta come il vessillo della  vita vissuta – come dall’eroe di un melodramma – in tutte le sue pieghe, in tutta la  sua totalità, in tutta la sua inconsapevolezza, in tutte le sue tentazioni, in tutte le  sue miserie (immediatamente e sistematicamente «perdonate» dall’Autrice: che  anzi si premura di glorificarle attraverso una certa ironia evangelica, per cui, delle  miserie, anche più miserabili, non c’è che da sorridere). Anche Davide Segre, nella  sua torva e ingenua rabbia e degradazione, è un simbolo di questa «vita vivente».  E non parliamo poi del carrozzone dei personaggi minori (napoletani o sotto-  proletari romani, figurarsi; per non parlare, inoltre, degli animali). 

In questo interminabile capitolo del romanzo, tutti i personaggi sono declamati,  improbabili, irreali: quindi manieristici. Puro manierismo è l’infanzia di Useppe; puro  manierismo è la giovinezza di Nino, puro manierismo la grinta di Davide, ecc.  In essi la Morante non «rappresenta» la vita, ma, appunto, la celebra: senza  tuttavia (a mio parere) aver meditato abbastanza su tale ideologizzazione e di  conseguenza sul proprio progetto narrativo. Le «spie» che testimoniano questa  approssimatività rappresentativa e stilistica sono molte. 

1) La Morante, che accetta la convenzione della «favola», e quindi la  necessaria funzionalità di ogni sua parte, non è fatta per gli excursus (alla  Gadda, per intenderci). Eppure queste due o trecento pagine del libro, sono    fatte tutte di excursus: in cui manca però, appunto, l’inclinazione e la follia  necessaria a rendere tali excursus autosufficienti, funzionali di per sé. Essi  sono in genere diligenti referti la cui funzione è quella di far trascorrere il  tempo della macchina narrativa: un referto riguardante Useppe fa  «trascorrere il tempo» concernente Nino, un referto riguardante la famiglia  napoletana fa «trascorrere il tempo» riguardante Useppe, e così di seguito.  La lunghezza del tempo (necessaria a un romanzo come questo) è sentita  come prolissità verbale: e un elementare gioco combinatorio tra varie sotto-storie è sentito come capace di sostituire la «successività» naturalistica:  ossia l’unilinearità della storia (privata o pubblica). Questo equivoco fa sì  che in realtà permangano e incombano minacciose nel romanzo sia la  successività naturalistica che l’unilinearità storica. 

2) Tutto ciò è aggravato dal fatto che la Morante non ha saputo o voluto  scegliere un personaggio che – in questa parte del libro – le mettesse a  disposizione il suo sguardo in modo che i fatti e le cose risultassero «viste  da lui». 

Ma ogni volta che succede qualcosa, la Morante – che è lei ad amministrare  e gestire separatamente tutti i personaggi – si sente in dovere di informarci  delle «reazioni» di ciascuno dei presenti a quell’avvenimento. E lo fa con  una diligenza che rasenta l’ossessione. Talvolta la meticolosità di tali  informazioni è puro arbitrio: non c’è personaggio, casualmente nominato – e  quindi totalmente fuori dalla storia – che non sia gratificato di un’intera  «relazione» che lo riguarda. Per esempio, un certo Giovannino, figlio di una  signora presso cui Ida subaffitta una camera. Egli è soltanto nominato come  assente, in quella casa (si trova in Russia): ma nulla impedisce alla Morante  di imporci, qualche tempo dopo, una lunga e circostanziata descrizione della  sua morte in Russia, che non riusciamo a capire se sia bella o brutta, tanto  poco ci importa di quel personaggio. E così l’amore di una certa ragazzetta  per il solito irresistibile Nino: ogni volta che Nino compare, la Morante ci  impone un‘osservazione sull’amore silenzioso e senza speranza di questa  ragazzetta, che non ha nel romanzo sbocco alcuno: e nemmeno un senso  che valga per se stesso. Ho dato due esempi, ma potrei darne a dozzine. 

3) La Morante è ideologicamente certa che non ci sia altro mezzo linguistico  che un certo umorismo per descrivere le imprese dei suoi eroi. Ma poi il  linguaggio di tale umorismo è di una elementarità disarmante: esso consiste  quasi esclusivamente nell’uso ossessionante dei due avverbi  «presentemente» e «attualmente» (per indicare un avvenimento vissuto con  grande passione e affettività da parte dei personaggi in una situazione, per  contro, molto umile e misera), le allocuzioni «a quanto pare» e, un po’ meno  frequente, «che io sappia», e gli aggettivi «futile» e «grandioso» (per  prendere in giro gli oggetti del suo amore, i suoi eroi). 

Il corollario della povertà del contingente di lingua umoristica, è  l’approssimazione e la goffaggine della «mimesi» del linguaggio di quegli  eroi, romani o napoletani che siano (per non parlare dell’alto-italiano  Davide). Il romano parlato di Nino e dei suoi amici ricorda addirittura (la    Morante mi perdoni, qui devo essere duro) quello di certi trafiletti di costume  del «Messaggero»: mentre il parlato di Davide non ha riscontro in nulla:  il ragazzo si presenta come bolognese, in realtà è mantovano, ma parla una  specie di veneto. Non c’è tuttavia angolo nell’Alta Italia in cui cadere si  dica cader. Per ogni dove, là, nell’Alta Italia, è cascare che ha trionfato  eliminando ogni altra forma concorrente. Che Davide dica cader è offensivo  per il lettore: ma è soprattutto offensivo per lui. Dov’è il così grande amore  della Morante per lui, se essa è poi così pigra da non fare il minimo sforzo  per ascoltare come parla? Vuol dire che in questo amore c’è qualcosa di  precostituito, che impedisce il particolare e il concreto, come fatti irrilevanti,  di fronte alle «grandiose» Leggi dell’Amore. D’altra parte il fatto stesso di  demolire o almeno sminuire e ridicolizzare, sia pure affettuosamente, tutto  ciò che i suoi eroi fanno, significa che essi sono amati in base a ciò che  sono, cioè per induzione aprioristica, non in base a ciò che fanno: che è  visto, appunto, come irrisorio e vano. Cosa questa che li rende di colpo  miserevoli automi di una realtà incompatibile con le loro illusioni. Anche  negli apogei della vita e dell’azione, in cui la vita si oppone alla storia proprio  in quanto vita – meraviglioso fenomeno da viversi estremisticamente, come  fanno appunto gli eroi della Morante, che per questo li ama – tale  opposizione è surrettizia. La mortuarietà della vita non può opporsi che  nominalmente a una Storia vista per definizione come mortuaria. 

Tecnicamente la Morante non si è accorta che nei capitoli di questa parte  del libro non doveva ripetere, quasi meccanicamente, ciò che viene esposto  nei trafiletti informativi tra un capitolo e l’altro. L’incomunicabilità tra capitoli  e trafiletti, per essere poetica, doveva essere radicale.  

 26 luglio 1974 

Nell’ultima parte del romanzo, nel Libro delle morti, di colpo, con la morte di  Ninnarieddu, la vita si libera dalla sua mortuarietà: protagonista diviene la morte,  cosa che dà di nuovo una grande vitalità al libro. L’estrema bellezza delle prime  150 pagine non è più raggiunta, perché la contrapposizione della morte alla Storia  (produttrice peraltro di morte) è enigmatica, irrelata e pura. Qui invece tale  contrapposizione resta ideologica e polemica. È per colpa della Storia (nella  fattispecie l’ultima guerra) che i personaggi muoiono: dunque il loro morire ha una  funzione preordinata. Ciononostante qui sì si può dire che le pagine hanno una  funzione anche di per sé, al di fuori del loro contesto logico e ideologico. La morte  di Ninnarieddu (e soprattutto il ricordo di lui morto nella madre inebetita), la morte  di Davide (a parte il delirio in osteria, poco prima), il presagio della morte del  piccolo Useppe (l’apparire del «grande male») sono cose molto alte. Qui la  Morante – senza che nulla cambi, ma continuando imperturbabile il diligente e  geniale «ron-ron» della sua scrittura di Manierista Onnisciente – è profondamente  ispirata. Si direbbe che anche lei è come il suo Hitler: raggiunge il climax solo  quando tutti sono morti (vedi del resto, in proposito, Potere e sopravvivenza di  Elias Canetti, Adelphi).  

Il grande romanzo della Morante è il complesso prodotto che doveva per forza  essere, come dicevo, gigantesco e sproporzionato, di un’ansia espressiva    abnorme. Vi confluiscono infatti almeno tre fonti identificabili d’ispirazione: 1)  L’esperienza autobiografica, 2) L’ideologia reale, 3) L’ideologia «decisa». 

1)   Quale filologo che ha reperito documenti e ha raccolto testimonianze scritte o  orali (non in quanto amico della Morante!) so per certo che tutta la prima parte del  romanzo – al di fuori delle esperienze intellettuali che sono anch’esse infine  autobiografiche – è dominata dall’elemento autobiografico del terrore della mezza  ebrea all’inizio delle persecuzioni razziali. Tale atroce esperienza autobiografica è  dalla Morante imparzialmente suddivisa tra la madre di Ida e Ida. Idea  straordinariamente poetica. Infatti nessuno dei due personaggi è poi  autobiografico: l’una vivendo miticamente la prima parte della tragedia, e l’altra la  seconda parte, sono gli unici personaggi davvero oggettivi dell’intero libro. Essi  hanno la profondità – l’estrema precisione e l’estrema imprecisione – delle persone  viventi. 

Assai poetica è poi l’intuizione del personaggio di Ida, una povera di spirito  incapace di guardare una sola volta nella vita in faccia la realtà, eppure così piena  di grazia, non mai manieristica. Il manierismo la Morante lo usa coi maschi e gli  animali, ma con il suo personaggio Ida la Morante non è mai stata neanche per un  attimo insincera. E Ida è anche il personaggio preso meno (affettuosamente) in  giro: essa è infatti del tutto priva di illusioni e piena, in compenso, di terrori. Dunque  non c’è niente in lei su cui sorridere. Non si può scherzare su una mortuarietà  reale. E sarà proprio Ida il personaggio «altro» che vivrà le più recenti e sempre  atroci esperienze autobiografiche della Morante. Anche tali esperienze vissute in  realtà (come le ricerche filologiche informano) in un’unica persona, nel romanzo  sono distribuite fra tre persone: la morte con le sue riapparizioni tocca in sorte a  Ninnarieddu; l’epilessia, o «grande male» a Useppe e infine la droga a Davide. 

È specialmente Ninnarieddu che lucra di tale attribuzione. Fino a quel punto egli  era stato un personaggio falso, tutto costruito aprioristicamente e arbitrariamente.  Nulla di ciò che egli dice o fa è attendibile. Come abbiamo visto, l’Autrice è  informata di tutto: ci dà notizie dei personaggi minori e minimi – anche quando  sono già fuori dalla storia, in un loro remotissimo mondo autonomo; addirittura, la  Morante ci dà notizie su personaggi solo nominati. Ma, poiché per Ninnarieddu la  Morante aveva bisogno della figura del classico amato, che fugge, dispare, è  eternamente altrove, per la disperazione dell’amante (il fratelluccio Useppe),  ebbene, la Morante ci dice sempre che Ninnarieddu, appunto, fugge, dispare, sta  altrove, non si fa più vivo ecc. Dove vada e cosa faccia non si sa. 

Ma qual è la logica che lega l’abbondanza di informazioni, inutili e irrichieste, su un  qualsiasi personaggio appena nominato e puramente parentetico e la totale  mancanza di ogni informazione su un personaggio come Ninnarieddu che ci sta,  invece, molto a cuore? È la libertà dell’artista, si dirà: il suo diritto a infrangere la  sua propria logica. Ebbene sì. Ma ciò non toglie che tali infrazioni siano  estremamente goffe, e che quindi Ninnarieddu risulti un personaggio «scollato»  (come Moravia dice per Madame Bovary). Ma ecco che, dal momento in cui muore  e diviene un ricordo, Ninnarieddu è stupendamente reale. 

2) L’«ideologia reale» di un autore è sempre «dedotta»: il che significa che  l’individuarla ed esprimerla, dipende dall’intelligenza del deduttore. Non pretendo,  quindi, di poterla qui delineare in tutta la sua oggettività o almeno nella sua  configurabilità. Fra l’altro, ogni ideologia reale è, per sua natura, illimitata e    indefinibile, perché abbraccia tutto il possibile. Mi limito ad afferrarne qualche  carattere. 

Prima di tutto, appunto, la sua illimitatezza, che corrisponde a quella totalità che è  la persona di Elsa Morante: totalità che si pone in un rapporto interpretativo  completo col mondo. E da questa illimitatezza che deriva l’illimitatezza reale del  libro, il suo sfumare verso superfici «altre», non verbali. Ed è questa illimitatezza  che vanifica la convenzione della «favola» (dalla Morante ostinatamente adottata e  applicata): infatti la «favola» è per sua costituzione «chiusa», e non si può  «chiudere» in nessun modo un’ideologia illimitata. Tale ideologia è quella che per  conto suo produce le parti sincere e «belle» del libro (la prima parte, il personaggio  di Ida, la parte finale, anche se non tutta). Non solo: ma essa presiede anche alle  due o trecento pagine manierate e «brutte» del libro: infatti non c’è una sola di tali  pagine che, estrapolata, non abbia qualcosa di reale, sempre. Per esempio,  ognuno dei «referti» inseriti per pura volontà d’autrice, quasi come zeppe, nel  racconto, e che nel contesto appaiono insopportabili, in se stessi, invece, risultano  quasi sempre forniti di vitalità e realtà.

 Il nucleo parlabile dell’«ideologia reale» della Morante consiste nella morte vista  come fenomeno che riduce a scherzo la vita: ma a uno scherzo bellissimo,  struggente, degno di essere vissuto, anche nelle sue inevitabili brutture. Ciò è  accaduto agli avi, che sono già morti, e accade a coloro che muoiono fisicamente.  Una stupenda, funeraria musica mozartiana accompagna gli atti della vita di  costoro. Il fatto che muoiano non riaccende in chi resta l’atroce sentimento della  sopravvivenza: al contrario, riaccende in lui la pietà, o, meglio, il vero e proprio  amore per i morti, sentiti come i veri fratelli. L’autrice (che, appunto, sopravvive)  non prova il piacere del tiranno (Hitler) che si realizza solo attraverso la serie  infinita delle morti altrui; ma prova la serena pena di chi vede confermato ciò che  impietosamente sa: è il medico Hachiya, sopravvissuto, che gira per Hiròshima a  guardare i luoghi dei morti e a pregare (cfr. ancora il citato Potere e  sopravvivenza). 

3) È l’«ideologia decisa» tuttavia che, ritagliando l’immenso tessuto  dell’«ideologia reale» – oppure, meglio, restringendola e volgarizzandola –  produce la struttura del libro: ossia i due schemi dell’abnorme ma canonica  dilatazione narrativa e della contrapposizione tra vita e Storia. È essa  dunque che rende parlabile l’imparlabile, sia pure attraverso pazienti  circonlocuzioni. Veniamo così esplicitamente a sapere, nel corso della lunga  lettura, che la vita, proprio la vita – come vitalità prorompente, ingenuità,  dedizione totale alla illusione, corporeità – è il «Bene», mentre la Storia, in  quanto produttrice di morte, è il «Male». È un’idea come un’altra. Giusta, fin  troppo giusta. 

La Morante, però, correda questa idea elementare, e evidentemente  insostenibile (come si può separare la Storia del Potere dalla Storia di chi  subisce la violenza di tale Potere, oppure se ne estranea?), di un supporto  filosofìco-politico. La filosofia è quella di Spinoza, quella del Vangelo letto da  San Paolo e quella della grande cultura induistica; la politica è quella  ideologizzata dagli anarchici. Tale sincretismo non coincide però con  nessuna ideologia storica: nessun mistico vi si riconoscerebbe, ma neanche  nessun anarchico. Il «pastiche» è unicamente morantiano. Tale affascinante    ideologia personale rivela però un’estrema debolezza e fragilità nel  momento in cui viene tradotta in termini di romanzo popolare, applicata,  volgarizzata. Benché mascherata con un certo umorismo, essa stride  puerilmente nel testo narrativo; mentre «messa nella bocca» dei personaggi  diviene totalmente afasica. E chiaro che essa, per valere – come realmente  vale – ha bisogno di un’assoluta aristocraticità, di una assoluta illeggibilità. E  infatti non per nulla il suo alto valore si manifesta in pieno nel precedente  libro della Morante (II mondo salvato dai ragazzini) che è un libro di versi,  cui invano il registro gnomico, e, ancora, favolistico, tentano di attribuire  leggibilità. Nel momento in cui tale ideologia viene trasformata in un «tema»  di romanzo popolare – per definizione voluminoso, carico di fatti e  informazioni, facile, rotondo e chiuso – essa perde ogni credibilità: diviene  un fragile pretesto che finisce col derealizzare la sproporzionata macchina  narrativa che ha preteso di mettere in moto.   

2 agosto 1974