06-11-2001

 

ÁRABES E CRISTÃOS

 

 

 

Bisogna ricordare che fa parte della cultura occidentale
anche Hitler che bruciava i libri e condannava l'arte degenerata


Le guerre sante
passione e ragione


di UMBERTO ECO

 Che qualcuno abbia, nei giorni scorsi, pronunciato parole inopportune sulla superiorità della cultura occidentale, sarebbe un fatto secondario. E' secondario che qualcuno dica una cosa che ritiene giusta ma nel momento sbagliato, ed è secondario che qualcuno creda a una cosa ingiusta o comunque sbagliata, perché il mondo è pieno di gente che crede a cose ingiuste e sbagliate, persino un signore che si chiama Bin Laden, che forse è più ricco del nostro presidente del Consiglio e ha studiato in migliori università. Quello che non è secondario, e che deve preoccupare un poco tutti, politici, leader religiosi, educatori, è che certe espressioni, o addirittura interi e appassionati articoli che in qualche modo le hanno legittimate, diventino materia di discussione generale, occupino la mente dei giovani, e magari li inducano a conclusioni passionali dettate dall'emozione del momento. Mi preoccupo dei giovani perché tanto, ai vecchi, la testa non la si cambia più.

Tutte le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per secoli sono nate da adesioni passionali a contrapposizioni semplicistiche, come Noi e gli Altri, buoni e cattivi, bianchi e neri. Se la cultura occidentale si è dimostrata feconda (non solo dall'Illuminismo a oggi ma anche prima, quando il francescano Ruggero Bacone invitava a imparare le lingue perché abbiamo qualcosa da apprendere anche dagli infedeli) è anche perché si è sforzata di "sciogliere", alla luce dell'indagine e dello spirito critico, le semplificazioni dannose. Naturalmente non lo ha fatto sempre, perché fanno parte della storia della cultura occidentale anche Hitler, che bruciava i libri, condannava l' arte "degenerata", uccideva gli appartenenti alle razze "inferiori", o il fascismo che mi insegnava a scuola a recitare "Dio stramaledica gli inglesi" perché erano "il popolo dei cinque pasti" e dunque dei ghiottoni inferiori all'italiano parco e spartano.

Ma sono gli aspetti migliori della nostra cultura quelli che dobbiamo discutere coi giovani, e di ogni colore, se non vogliamo che crollino nuove torri anche nei giorni che essi vivranno dopo di noi. Un elemento di confusione è che spesso non si riesce a cogliere la differenza tra l'identificazione con le proprie radici, il capire chi ha altre radici e il giudicare ciò che è bene o male. Quanto a radici, se mi chiedessero se preferirei passare gli anni della pensione in un paesino del Monferrato, nella maestosa cornice del parco nazionale dell'Abruzzo o nelle dolci colline del senese, sceglierei il Monferrato. Ma ciò non comporta che giudichi altre regioni italiane inferiori al Piemonte.

Quindi se, con le sue parole (pronunciate per gli occidentali ma cancellate per gli arabi), il presidente del Consiglio voleva dire che preferisce vivere ad Arcore piuttosto che a Kabul, e farsi curare in un ospedale milanese piuttosto che in uno di Bagdad, sarei pronto a sottoscrivere la sua opinione (Arcore a parte). E questo anche se mi dicessero che a Bagdad hanno istituito l'ospedale più attrezzato del mondo: a Milano mi troverei più a casa mia, e questo influirebbe anche sulle mie capacità di ripresa. Le radici possono essere anche più ampie di quelle regionali o nazionali. Preferirei vivere a Limoges, tanto per dire, che a Mosca. Ma come, Mosca non è una città bellissima? Certamente, ma a Limoges capirei la lingua. Insomma, ciascuno si identifica con la cultura in cui è cresciuto e i casi di trapianto radicale, che pure ci sono, sono una minoranza. Lawrence d'Arabia si vestiva addirittura come gli arabi, ma alla fine è tornato a casa propria.
 

Passiamo ora al confronto di civiltà, perché è questo il punto. L'Occidente, sia pure e spesso per ragioni di espansione economica, è stato curioso delle altre civiltà. Molte volte le ha liquidate con disprezzo: i greci chiamavano barbari, e cioè balbuzienti, coloro che non parlavano la loro lingua e dunque era come se non parlassero affatto. Ma dei greci più maturi come gli stoici (forse perché alcuni di loro erano di origine fenicia) hanno ben presto avvertito che i barbari usavano parole diverse da quelle greche, ma si riferivano agli stessi pensieri. Marco Polo ha cercato di descrivere con grande rispetto usi e costumi cinesi, i grandi maestri della teologia cristiana medievale cercavano di farsi tradurre i testi dei filosofi, medici e astrologi arabi, gli uomini del Rinascimento hanno persino esagerato nel loro tentativo di ricuperare perdute saggezze orientali, dai Caldei agli Egizi, Montesquieu ha cercato di capire come un persiano potesse vedere i francesi, e antropologi moderni hanno condotto i loro primi studi sui rapporti dei salesiani, che andavano sì presso i Bororo per convertirli, se possibile, ma anche per capire quale fosse il loro modo di pensare e di vivere forse memori del fatto che missionari di alcuni secoli prima non erano riusciti a capire le civiltà amerindie e ne avevano incoraggiato lo sterminio.
 


Ho nominato gli antropologi. Non dico cosa nuova se ricordo che, dalla metà del XIX secolo in avanti, l'antropologia culturale si è sviluppata come tentativo di sanare il rimorso dell'Occidente nei confronti degli Altri, e specialmente di quegli Altri che erano definiti selvaggi, società senza storia, popoli primitivi. L'Occidente coi selvaggi non era stato tenero: li aveva "scoperti", aveva tentato di evangelizzarli, li aveva sfruttati, molti ne aveva ridotto in schiavitù, tra l'altro con l'aiuto degli arabi, perché le navi degli schiavi venivano scaricate a New Orleans da raffinati gentiluomini di origine francese, ma stivate sulle coste africane da trafficanti musulmani. L'antropologia culturale (che poteva prosperare grazie all'espansione coloniale) cercava di riparare ai peccati del colonialismo mostrando che quelle culture "altre" erano appunto delle culture, con le loro credenze, i loro riti, le loro abitudini, ragionevolissime del contesto in cui si erano sviluppate, e assolutamente organiche, vale a dire che si reggevano su una loro logica interna. Il compito dell'antropologo culturale era di dimostrare che esistevano delle logiche diverse da quelle occidentali, e che andavano prese sul serio, non disprezzate e represse.

Questo non voleva dire che gli antropologi, una volta spiegata la logica degli Altri, decidessero di vivere come loro; anzi, tranne pochi casi, finito il loro pluriennale lavoro oltremare se ne tornavano a consumare una serena vecchiaia nel Devonshire o in Piccardia. Però leggendo i loro libri qualcuno potrebbe pensare che l'antropologia culturale sostenga una posizione relativistica, e affermi che una cultura vale l'altra. Non mi pare sia così. Al massimo l'antropologo ci diceva che, sino a che gli Altri se ne stavano a casa propria, bisognava rispettare il loro modo di vivere.


La vera lezione che si deve trarre dall'antropologia culturale è piuttosto che, per dire se una cultura è superiore a un'altra, bisogna fissare dei parametri. Un conto è dire che cosa sia una cultura e un conto dire in base a quali parametri la giudichiamo. Una cultura può essere descritta in modo passabilmente oggettivo: queste persone si comportano così, credono negli spiriti o in un'unica divinità che pervade di sé tutta la natura, si uniscono in clan parentali secondo queste regole, ritengono che sia bello trafiggersi il naso con degli anelli (potrebbe essere una descrizione della cultura giovanile in Occidente), ritengono impura la carne di maiale, si circoncidono, allevano i cani per metterli in pentola nei dì festivi o, come ancor dicono gli americani dei francesi, mangiano le rane.

L'antropologo ovviamente sa che l'obiettività viene sempre messa in crisi da tanti fattori. L'anno scorso sono stato nei paesi Dogon e ho chiesto a un ragazzino se fosse musulmano. Lui mi ha risposto, in francese, "no, sono animista". Ora, credetemi, un animista non si definisce animista se non ha almeno preso un diploma alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, e quindi quel bambino parlava della propria cultura così come gliela avevano definita gli antropologi. Gli antropologi africani mi raccontavano che quando arriva un antropologo europeo i Dogon, ormai scafatissimi, gli raccontano quello che aveva scritto tanti anni fa un antropologo, Griaule (al quale però, così almeno asserivano gli amici africani colti, gli informatori indigeni avevano raccontato cose abbastanza slegate tra loro che poi lui aveva riunito in un sistema affascinante ma di dubbia autenticità). Tuttavia, fatta la tara di tutti i malintesi possibili di una cultura
altra si può avere una descrizione abbastanza "neutra". I parametri di giudizio sono un'altra cosa, dipendono dalle nostre radici, dalle nostre preferenze, dalle nostre abitudini, dalle nostre passioni, da un nostro sistema di valori. Facciamo un esempio. Riteniamo noi che il prolungare la vita media da quaranta a ottant'anni sia un valore? Io personalmente lo credo, però molti mistici potrebbero dirmi che, tra un crapulone che campa ottant'anni e san Luigi Gonzaga che ne campa ventitré, è il secondo che ha avuto una vita più piena. Ma ammettiamo che l'allungamento della vita sia un valore: se è così la medicina e la scienza occidentale sono certamente superiori a molti altri saperi e pratiche mediche.

Crediamo che lo sviluppo tecnologico, l'espansione dei commerci, la rapidità dei trasporti siano un valore? Moltissimi la pensano così, e hanno diritto di giudicare superiore la nostra civiltà tecnologica. Ma, proprio all'interno del mondo occidentale, ci sono coloro che reputano valore primario una vita in armonia con un ambiente incorrotto, e dunque sono pronti a rinunciare ad aerei, automobili, frigoriferi, per intrecciare canestri e muoversi a piedi di villaggio in villaggio, pur di non avere il buco dell'ozono. E dunque vedete che, per definire una cultura migliore dell'altra, non basta descriverla (come fa l'antropologo) ma occorre il richiamo a un sistema di valori a cui riteniamo di non potere rinunciare. Solo a questo punto possiamo dire che la nostra cultura, per noi, è migliore.


In questi giorni si è assistito a varie difese di culture diverse in base a parametri discutibili. Proprio l'altro giorno leggevo una lettera a un grande quotidiano dove si chiedeva sarcasticamente come mai i premi Nobel vanno solo agli occidentali e non agli orientali. A parte il fatto che si trattava di un ignorante che non sapeva quanti premi Nobel per la letteratura sono andati a persone di pelle nera e a grandi scrittori islamici, a parte che il premio Nobel per la fisica del 1979 è andato a un pakistano che si chiama Abdus Salam, affermare che riconoscimenti per la scienza vanno naturalmente a chi lavora nell'ambito della scienza occidentale è scoprire l'acqua calda, perché nessuno ha mai messo in dubbio che la scienza e la tecnologia occidentali siano oggi all'avanguardia. All'avanguardia di cosa? Della scienza e della tecnologia. Quanto è assoluto il parametro dello sviluppo tecnologico? Il Pakistan ha la bomba atomica e l'Italia no. Dunque noi siamo una civiltà inferiore? Meglio vivere a Islamabad che ad Arcore?

I sostenitori del dialogo ci richiamano al rispetto del mondo islamico ricordando che ha dato uomini come Avicenna (che tra l'altro è nato a Buchara, non molto lontano dall'Afghanistan) e Averroè - ed è un peccato che si citino sempre questi due, come fossero gli unici, e non si parli di Al Kindi, Avenpace, Avicebron, Ibn Tufayl, o di quel grande storico del XIV secolo che fu Ibn Khaldun, che l'Occidente considera addirittura l'iniziatore delle scienze sociali. Ci ricordano che gli arabi di Spagna coltivavano geografia, astronomia, matematica o medicina quando nel mondo cristiano si era molto più indietro. Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare così si dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per terra ad aspettare per più di centocinquant'anni che arrivassero gli olandesi a comperargli l'intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci.

Le cose cambiano. Non serve ricordare che gli arabi di Spagna erano assai tolleranti con cristiani ed ebrei mentre da noi si assalivano i ghetti, o che il Saladino, quando ha riconquistato Gerusalemme, è stato più misericordioso coi cristiani di quanto non fossero stati i cristiani con i saraceni quando Gerusalemme l'avevano conquistata. Tutte cose esatte, ma nel mondo islamico ci sono oggi regimi fondamentalisti e teocratici che i cristiani non li tollerano e Bin Laden non è stato misericordioso con New York. La Battriana è stato un incrocio di grandi civiltà, ma oggi i talebani prendono a cannonate i Buddha. Di converso, i francesi hanno fatto il massacro della Notte di San Bartolomeo, ma questo non autorizza nessuno a dire che oggi siano dei barbari.

Non andiamo a scomodare la storia perché è un'arma a doppio taglio. I turchi impalavano (ed è male) ma i bizantini ortodossi cavavano gli occhi ai parenti pericolosi e i cattolici bruciavano Giordano Bruno; i pirati saraceni ne facevano di cotte e di crude, ma i corsari di sua maestà britannica, con tanto di patente, mettevano a fuoco le colonie spagnole nei carabi; Bin Laden e Saddam Hussein sono nemici feroci della civiltà occidentale, ma all'interno della civiltà occidentale abbiamo avuto signori che si chiamavano Hitler o Stalin (Stalin era così cattivo che è sempre stato definito come orientale, anche se aveva studiato in seminario e letto Marx).


No, il problema dei parametri non si pone in chiave storica, bensì in chiave contemporanea. Ora, una delle cose lodevoli delle culture occidentali (libere e pluralistiche, e questi sono i valori che noi riteniamo irrinunciabili) è che si sono accorte da gran tempo che la stessa persona può essere portata a manovrare parametri diversi, e mutuamente contraddittori, su questioni differenti. Per esempio si reputa un bene l'allungamento della vita e un male l'inquinamento atmosferico, ma avvertiamo benissimo che forse, per avere i grandi laboratori in cui si studia l'allungamento della vita, occorre avere un sistema di comunicazioni e rifornimento energetico che poi, dal canto proprio, produce l'inquinamento. La cultura occidentale ha elaborato la capacità di mettere liberamente a nudo le sue proprie contraddizioni.

Magari non le risolve, ma sa che ci sono, e lo dice. In fin dei conti tutto il dibattito su globale-sì e globale-no sta qui, tranne che per le tute nere spaccatutto: come è sopportabile una quota di globalizzazione positiva evitando i rischi e le ingiustizie della globalizzazione perversa, come si può allungare la vita anche ai milioni di africani che muoiono di Aids (e nel contempo allungare anche la nostra) senza accettare una economia planetaria che fa morire di fame gli ammalati di Aids e fa ingoiare cibi inquinati a noi?

Ma proprio questa critica dei parametri, che l'Occidente persegue e incoraggia, ci fa capire come la questione dei parametri sia delicata. E' giusto e civile proteggere il segreto bancario? Moltissimi ritengono di sì. Ma se questa segretezza permette ai terroristi di tenere i loro soldi nella City di Londra? Allora, la difesa della cosiddetta privacy è un valore positivo o dubbio? Noi mettiamo continuamente in discussione i nostri parametri. Il mondo occidentale lo fa a tal punto che consente ai propri cittadini di rifiutare come positivo il parametro dello sviluppo tecnologico e di diventare buddisti o di andare a vivere in comunità dove non si usano i pneumatici, neppure per i carretti a cavalli. La scuola deve insegnare ad analizzare e discutere i parametri su cui si reggono le nostre affermazioni passionali.


Il problema che l'antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa quando il membro di una cultura, i cui principi abbiamo magari imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra. In realtà la maggior parte delle reazioni razziste in Occidente non è dovuta al fatto che degli animisti vivano nel Mali (basta che se ne stiano a casa propria, dice infatti la Lega), ma che gli animisti vengano a vivere da noi. E passi per gli animisti, o per chi vuole pregare in direzione della Mecca, ma se vogliono portare il chador, se vogliono infibulare le loro ragazze, se (come accade per certe sette occidentali) rifiutano le trasfusioni di sangue ai loro bambini ammalati, se l'ultimo mangiatore d'uomini della Nuova Guinea (ammesso che ci sia ancora) vuole emigrare da noi e farsi arrosto un giovanotto almeno ogni domenica?

Sul mangiatore d'uomini siamo tutti d'accordo, lo si mette in galera (ma specialmente perché non sono un miliardo), sulle ragazze che vanno a scuola col chador non vedo perché fare tragedie se a loro piace così, sulla infibulazione il dibattito è invece aperto (c'è persino chi è stato così tollerante da suggerire di farle gestire dalle unità sanitarie locali, così l'igiene è salva), ma cosa facciamo per esempio con la richiesta che le donne musulmane possano essere fotografate sul passaporto col velo? Abbiamo delle leggi, uguali per tutti, che stabiliscono dei criteri di identificazione dei cittadini, e non credo si possa deflettervi. Io quando ho visitato una moschea mi sono tolto le scarpe, perché rispettavo le leggi e le usanze del paese ospite. Come la mettiamo con la foto velata?

Credo che in questi casi si possa negoziare. In fondo le foto dei passaporti sono sempre infedeli e servono a quel che servono, si studino delle tessere magnetiche che reagiscono all'impronta del pollice, chi vuole questo trattamento privilegiato ne paghi l'eventuale sovrapprezzo. E se poi queste donne frequenteranno le nostre scuole potrebbero anche venire a conoscenza di diritti che non credevano di avere, così come molti occidentali sono andati alle scuole coraniche e hanno deciso liberamente di farsi musulmani. Riflettere sui nostri parametri significa anche decidere che siamo pronti a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi intollerabili.


L'Occidente ha dedicato fondi ed energie a studiare usi e costumi degli Altri, ma nessuno ha mai veramente consentito agli Altri di studiare usi e costumi dell'Occidente, se non nelle scuole tenute oltremare dai bianchi, o consentendo agli Altri più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi - e poi si vede cosa succede, studiano in Occidente e poi tornano a casa a organizzare movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi non li possono fare (la storia è peraltro vecchia, e per l'indipendenza dell'India si sono battuti intellettuali che avevano studiato con gli inglesi).

Antichi viaggiatori arabi e cinesi avevano studiato qualcosa dei paesi dove tramonta il sole, ma sono cose di cui sappiamo abbastanza poco. Quanti antropologi africani o cinesi sono venuti a studiare l'Occidente per raccontarlo non solo ai propri concittadini, ma anche a noi, dico raccontare a noi come loro ci vedono? Esiste da alcuni anni una organizzazione internazionale chiamata Transcultura che si batte per una "antropologia alternativa". Ha condotto studiosi africani che non erano mai stati in Occidente a descrivere la provincia francese e la società bolognese, e vi assicuro che quando noi europei abbiamo letto che due delle osservazioni più stupite riguardavano il fatto che gli europei portano a passeggio i loro cani e che in riva al mare si mettono nudi - beh, dico, lo sguardo reciproco ha incominciato a funzionare da ambo le parti, e ne sono nate discussioni interessanti.

In questo momento, in vista di un convegno finale che si svolgerà a Bruxelles a novembre, tre cinesi, un filosofo, un antropologo e un artista, stanno terminando il loro viaggio di Marco Polo alla rovescia, salvo che anziché limitarsi a scrivere il loro Milione registrano e filmano. Alla fine non so cosa le loro osservazioni potranno spiegare ai cinesi, ma so che cosa potranno spiegare anche a noi. Immaginate che fondamentalisti musulmani vengano invitati a condurre studi sul fondamentalismo cristiano (questa volta non c'entrano i cattolici, sono protestanti americani, più fanatici di un ayatollah, che cercano di espungere dalle scuole ogni riferimento a Darwin). Bene, io credo che lo studio antropologico del fondamentalismo altrui possa servire a capire meglio la natura del proprio. Vengano a studiare il nostro concetto di guerra santa (potrei consigliare loro molti scritti interessanti, anche recenti) e forse vedrebbero con occhio più critico l'idea di guerra santa in casa loro. In fondo noi occidentali abbiamo riflettuto sui limiti del nostro modo di pensare proprio descrivendo la pensée sauvage.


Uno dei valori di cui la civiltà occidentale parla molto è l'accettazione delle differenze. Teoricamente siamo tutti d'accordo, è politically correct dire in pubblico di qualcuno che è gay, ma poi a casa si dice ridacchiando che è un frocio. Come si fa a insegnare l'accettazione della differenza? L'Academie Universelle des Cultures ha messo in linea un sito dove si stanno elaborando materiali su temi diversi (colore, religione, usi e costumi e così via) per gli educatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare ai loro scolari come si accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto si è deciso di non dire bugie ai bambini, affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione. Né basta dirgli che sono tutti figli di Dio, perché anche gli animali sono figli di Dio, eppure i ragazzi non hanno mai visto una capra in cattedra a insegnargli l'ortografia. Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, per poi mostrare che queste diversità possono essere una fonte di ricchezza.

Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi bambini italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana. Il passo successivo sarà mostrare che c'è qualcosa in comune tra la nostra e la loro musica, e che anche il loro Dio raccomanda alcune cose buone. Obiezione possibile: noi lo faremo a Firenze, ma poi lo faranno anche a Kabul? Bene, questa obiezione è quanto di più lontano possa esserci dai valori della civiltà occidentale. Noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche noi.

Il parametro della tolleranza della diversità è certamente uno dei più forti e dei meno discutibili, e noi giudichiamo matura la nostra cultura perché sa tollerare la diversità, e barbari quegli stessi appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano. Punto e basta. Altrimenti sarebbe come se decidessimo che, se in una certa area del globo ci sono ancora cannibali, noi andiamo a mangiarli così imparano. Noi speriamo che, visto che permettiamo le moschee a casa nostra, un giorno ci siano chiese cristiane o non si bombardino i Buddha a casa loro. Questo se crediamo nella bontà dei nostri parametri.


Molta è la confusione sotto il cielo. Di questi tempi avvengono cose molto curiose. Pare che difesa dei valori dell'Occidente sia diventata una bandiera della destra, mentre la sinistra è come al solito filo islamica. Ora, a parte il fatto che c'è una destra e c'è un cattolicesimo integrista decisamente terzomondista, filoarabo e via dicendo, non si tiene conto di un fenomeno storico che sta sotto gli occhi di tutti. La difesa dei valori della scienza, dello sviluppo tecnologico e della cultura occidentale moderna in genere è stata sempre una caratteristica delle ali laiche e progressiste. Non solo, ma a una ideologia del progresso tecnologico e scientifico si sono richiamati tutti i regimi comunisti. Il Manifesto del 1848 si apre con un elogio spassionato dell'espansione borghese; Marx non dice che bisogna invertire la rotta e passare al modo di produzione asiatico, dice solo che questi di questi valori e di questi successi si debbono impadronire i proletari.

Di converso è sempre stato il pensiero reazionario (nel senso più nobile del termine), almeno a cominciare col rifiuto della rivoluzione francese, che si è opposto all'ideologia laica del progresso affermando che si deve tornare ai valori della Tradizione. Solo alcuni gruppi neonazisti si rifanno a una idea mitica dell'Occidente e sarebbero pronti a sgozzare tutti i musulmani a Stonehenge. I più seri tra i pensatori della Tradizione (tra cui anche molti che votano Alleanza Nazionale) si sono sempre rivolti, oltre che a riti e miti dei popoli primitivi, o alla lezione buddista, proprio all'Islam, come fonte ancora attuale di spiritualità alternativa. Sono sempre stati lì a ricordarci che noi non siamo superiori, bensì inariditi dall'ideologia del progresso, e che la verità dobbiamo andarla a cercare tra i mistici Sufi o tra i dervisci danzanti. E queste cose non le dico io, le hanno sempre dette loro. Basta andare in una libreria e cercare negli scaffali giusti.

In questo senso a destra si sta aprendo ora una curiosa spaccatura. Ma forse è solo segno che nei momenti di grande smarrimento (e certamente viviamo uno di questi) nessuno sa più da che parte sta. Però è proprio nei momenti di smarrimento che bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle nostre superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta nelle scuole, e non solo nelle conferenze stampa.

(5 ottobre 2001)            

 

Guerras santas, paixão e razão

Umberto Eco (semiólogo, escritor)

 Que alguém tenha pronunciado, nos últimos dias, palavras inoportunas sobre a superioridade da cultura ocidental, seria um facto secundário. É secundário que alguém diga algo que considera justo, mas num momento errado, e é secundário que alguém acredite em algo injusto ou de qualquer modo, errado, porque o mundo está cheio de gente que acredita em coisas injustas e erradas, até mesmo um senhor que se chama Bin Laden, que é talvez mais rico do que o nosso Primeiro Ministro e estudou em melhores universidades. O que não é secundário e que nos deve preocupar um pouco a todos, políticos, líderes religiosos, educadores, é que certas expressões, ou mesmo inteiros e apaixonados artigos que de qualquer modo as legitimaram, se tornem matéria de discussão geral, ocupem a mente dos jovens e mesmo os levem a conclusão apaixonadas, ditadas pela emoção do momento. Preocupo-me com os jovens, porque, de qualquer modo, aos velhos, já não é possível mudar a cabeça.

 Todas as guerras de religião que ensanguentaram o mundo durante séculos nasceram de adesões apaixonadas a contraposições simplicistas, como, por exemplo, Nós e os Outros, bons e maus, brancos e negros. Se a cultura ocidental se mostrou fecunda (não só desde o Iluminismo até hoje, mas também antes, quando o franciscano Ruggero Bacone incitava a aprender línguas porque temos qualquer coisa a aprender mesmo com os infiéis) é também porque se esforçou em “desfazer”, à luz da investigação e do espírito crítico, as simplificações prejudiciais. Naturalmente, nem sempre o fez, porque também fazem parte da cultura ocidental Hitler que queimava os livros, condenava a arte “degenerada”, liquidava os que pertenciam às “raças inferiores”, ou o fascismo que me ensinava na escola a recitar “Deus lance todas as maldições sobre os ingleses” porque eram o “povo das cinco refeições” e portanto glutões inferiores aos italianos, poupados e espartanos.

Mas são os melhores aspectos da nossa cultura que devemos discutir com os jovens, de qualquer cor, se não queremos que também desabem novas torres, nos dias que eles viverão depois de nós.Um elemento de confusão é que frequentemente não se consegue apreender a diferença de identificação com as próprias origens, compreender que há outras origens e julgar o que é bem ou mal. Quanto às origens, se me perguntassem se preferiria passar os anos da reforma numa aldeola de Monferrato, na majestosa moldura do Parque Nacional de Abruzzo ou nas doces colinas de Siena, escolheria Monferrato. Mas isso não implica que considere as outras regiões italianas inferiores à de Piemonte.
 

Portanto se com as suas palavras (proferidas para ocidentais mas interditas aos árabes), o presidente do Conselho queria dizer que prefere mais viver em Arcore que em Cabul, e tratar-se num hospital milanês em vez de um de Bagdade, estarei pronto a subscrever a sua opinião (Arcore à parte). E isto mesmo que me dissessem que em Bagdade tinham fundado o hospital mais bem apetrechado do mundo: em Milão sinto-me mais em casa, e isto iria influenciar naturalmente a minha capacidade de recuperação. As origens podem ser também mais amplas que as regionais ou nacionais. Prefiro, obviamente, viver em Limoges, em vez de Moscovo. Mas como, Moscovo não é uma belíssima cidade?Com certeza, mas em Limoges compreenderei a língua.
Em suma, cada um identifica-se com a cultura em que cresceu e os casos de importação radical, que também existem, são uma minoria. Lawrence d'Arábia vestia-se verdadeiramente como os árabes, mas ao fim regressou a sua casa.

 

Passemos agora ao confronto de civilizações, porque é este o ponto. O Ocidente, nem que fosse, muito frequentemente, por razões de expansão económica, teve curiosidade por outras civilizações. Muitas vezes exterminou-as com desprezo: os gregos chamavam-nos bárbaros, isto é gagos, àqueles que não falavam a sua língua e portanto era como se não falassem absolutamente nada. Mas os gregos com maior maturidade como os estóicos (talvez porque alguns deles fossem de origem fenícia) bem cedo advertiram que os bárbaros usavam palavras diferentes das gregas, mas referiam-se aos mesmos pensamentos. Marco Polo procurou descrever com grande respeito os usos e costumes chineses. Os grandes mestres da teologia cristã medieval procuraram chegar à tradução de textos de filósofos, médicos e astrólogos árabes. Até os homens do Renascimento exageraram na sua tentativa de recuperar sabedorias orientais, dos Caldeus aos Egípcios. Montesquieu procurou compreender como um persa poderia ver os franceses e antropólogos modernos conduzirem os seus primeiros estudos sobre os relatórios dos salesianos, que andavam junto dos Bororos para convertê-los se possível, mas também para compreender qual era a seu modo de pensar e de viver - talvez recordados do facto de, alguns séculos antes, missionários não terem sido capazes de compreender as civilizações ameríndias e daí terem colaborado no seu extermínio.

Mencionei os antropólogos. Não digo nada de novo se lembro que a partir da metade do século XIX, a antropologia cultural desenvolveu-se como tentativa de desculpabilizar o Ocidente face aos confrontos com os Outros, e especialmente daqueles Outros que eram considerados "selvagens", sociedade sem história, povos primitivos. O Ocidente não foi indulgente com os selvagens: tinha-os "descoberto", tinha tentado evangelizá-los, tinha-os explorado, muitos reduziram-nos à escravatura, aliás com a ajuda dos árabes, porque os navios dos escravos eram descarregados em Nova Orleães por requintados cavalheiros de origem francesa, mas apinhados na costa africana por traficantes muçulmanos. A antropologia cultural (que podia prosperar graças à expansão colonial) procurava redimir-se dos pecados do colonialismo, mostrando que aquelas "outras" culturas eram justamente culturas, com as suas crenças, os seus ritos, os seus hábitos, legitimados no contexto em que se desenvolveram, e completamente organizadas. É justo dizer que se regiam sob uma lógica interna. A tarefa do antropólogo cultural era a de demonstrar que existiam lógicas diferentes das dos ocidentais, que não deviam ser nem desprezadas nem reprimidas, mas que pelo contrário deviam ser levadas a sério.

Isto não quer dizer que os antropólogos, uma vez explicada a lógica dessas outras culturas, decidissem viver como elas; pelo contrário, com excepção de alguns antropólogos, a maior parte, acabado o seu trabalho de vários anos, além-mar, regressavam para terminar uma velhice tranquila em Devonshire ou na Piccardia. Contudo, lendo os seus livros alguém poderá pensar que a antropologia cultural defende uma posição relativista, e afirmam que uma cultura vale tanto como a outra. Não me parece que seja assim. No essencial, o antropólogo defendia que, enquanto essas culturas indígenas se mantivessem confinadas aos seus territórios, seria necessário respeitar o seu modo de viver.
 

A verdadeira lição que se deve tirar da antropologia cultural é que, para se dizer se uma cultura é superior a outra, é necessário fixar parâmetros. Uma coisa é dizer o que é uma cultura e outra dizer com que parâmetros base a julgamos. Uma cultura pode ser descrita de forma razoavelmente objectiva: estas pessoas comportam-se desta ou daquela maneira. Acreditam nos espíritos ou numa única divindade que está presente em toda a natureza, unem-se em clãs parentais segundo estas regras. Pensam que seja bonito trespassar-se o nariz com anéis (poderia ser uma descrição da cultura juvenil no Ocidente). Consideram impura a carne de porco. Circuncisam-se. Matam cães para os meter na panela nos dias festivos. Como ainda dizem os americanos dos franceses, comem rãs.

 

O antropólogo sabe, obviamente, que a objectividade é sempre posta em causa por muitos factores. No ano passado estive nas terras de Dogon e perguntei a um rapazinho se era muçulmano. Ele respondeu-me em francês "não, sou animista". Mas acreditem que nenhum animista se auto define como tal, se não tirou, pelo menos, um diploma na Escola de Altos Estudos de Paris, e, no entanto, aquele menino falava da sua cultura tal como lha tinham definido os antropólogos. Os antropólogos africanos contaram-me que, quando chega um antropólogo europeu, os Dogon, já incomodadissimos, contam-lhe o que escreveu há muitos anos o antropólogo Griaule (ao qual contudo, pelo menos asseguram-me os amigos africanos cultos, os informadores indígenas tinham contado coisas bastante desligadas entre si, que posteriormente ele compilou num sistema fascinante, mas de duvidosa autenticidade). Contudo, feito o balanço de todos os equívocos possíveis de culturas diferenciadas, pode-se obter uma descrição bastante "neutra". Os parâmetros de avaliação são uma outra coisa: dependem das nossas origens, das nossas preferências, dos nossos hábitos, das nossas paixões e do nosso próprio sistema de valores. Vamos dar um exemplo: o facto da média de vida se ter prolongado dos 40 para os 80 anos, será isso um valor? Eu, pessoalmente, acho que sim. No entanto, muitos místicos poderiam dizer-me que entre um crápula que vive 80 anos e São Luís Gonzaga que nem viveu 23, foi o segundo que teve uma vida mais cheia. Mas admitamos que o prolongamento da vida seja um valor: se é assim, a medicina e a ciência ocidental são certamente superiores a muitos outros saberes e práticas médicas.

Acreditamos que o desenvolvimento tecnológico, a expansão dos comércios, a rapidez dos transportes são um valor? Muitos pensam assim e têm o direito de concluir que a nossa civilização tecnológica é superior. Mas mesmo no mundo ocidental existem os que julgam fundamentais os valores primários, uma vida em harmonia com o ambiente despoluído e por isso estão prontos a renunciar aos aviões, carros, frigoríficos, para fazerem cestos à mão e deslocarem-se a pé de cidade em cidade, para não agravar o buraco de ozone. E, no entanto, reparem que para considerar uma cultura superior a outra, não basta descrevê-la (como faz o antropólogo), mas apelar a um sistema de valores a que nos prendamos e ao qual não podemos renunciar. Só assim podemos afirmar que a nossa cultura, para nós, é melhor.
 

Nestes últimos dias assistiu-se a variadas defesas de culturas diferentes baseadas em parâmetros discutíveis. Há dias lia, precisamente, uma carta a um grande jornal diário onde se perguntava sarcasticamente como é que os prémios Nobel são só atribuídos aos ocidentais e nunca aos orientais. À parte o facto de se tratar de um ignorante que não sabia quantos prémios Nobel da literatura foram atribuídos a pessoas de pele negra e a grandes escritores islâmicos, à parte de o Prémio Nobel da Física em 1979 ter sido atribuído a um paquistanês que se chama Abdus Salam, afirmar que os reconhecimentos para a ciência vão naturalmente para quem trabalha no âmbito da ciência ocidental é descobrir a pólvora, porque nunca ninguém pôs em dúvida que a ciência e a tecnologia ocidentais estão hoje na vanguarda. Na vanguarda de quê? Da ciência e da tecnologia. De que maneira podemos quantificar um parâmetro absoluto de desenvolvimento tecnológico? O Paquistão tem a bomba atómica e a Itália não. Então nós somos uma civilização inferior? É melhor viver em Islamabade do que em Arcore?
 

 


Os defensores do diálogo apelam-nos ao respeito pelo mundo islâmico recordando que deu homens como Avicenna (que aliás nasceu em Buchara, não muito longe do Afeganistão) e Averroè - e é uma pena que se mencionem sempre estes dois, como se fossem os únicos e não se fale de Al Kindi, Avenpace, Avicebron, Ibn Tufayl, ou do grande historiador do século XIV que foi Ibn Khaldun, que o Ocidente considera verdadeiramente o precursor das ciências sociais. Não nos podemos esquecer que os árabes de Espanha se dedicavam à geografia, à astronomia, à matemática e medicina enquanto no mundo cristão se estava muito mais atrasado. Tudo isto é muito verdade, mas não são por si só argumentos: porque, raciocinando deste modo, dever-se-á dizer que Vinci, notável município toscano, é superior a Nova Iorque, porque em Vinci nasceu Leonardo, enquanto em Manhattan quatro índios, sentados no chão, esperaram, mais de 150 anos, pelos holandeses que lhes compraram toda a península por 24 dólares. E, no entanto, sem ofensa para ninguém, hoje o centro do mundo é Nova Iorque e não Vinci.

 

 As coisas mudam. Não basta lembrar que os árabes de Espanha eram bastante tolerantescom os cristãos e hebreus enquanto na nossa terra se atacavam os guetos, ou que o Saladino, quando reconquistou Jerusalém, foi mais misericordioso com os cristãos que o foram estes com os sarracenos quando conquistaram Jerusalém. Tudo isto é verdade, mas no mundo islâmico existem hoje regimes fundamentalistas e teocráticos que os cristãos não toleram e Ben Laden não foi misericordioso com Nova Iorque. Battriana foi um cruzamento de grandes civilizações, mas hoje os talibãs derrubam a tiros de canhão os Budas. Em sentido contrário, os francesas fizeram o massacre da Noite de São Bartolomeu, mas isto não autoriza ninguém a dizer que hoje somos os bárbaros.
 

Deixemos a história sossegada, já que é uma arma de dois gumes. Os turcos empalavam (o que é péssimo) mas os bizantinos ortodoxos, por seu lado, arrancavam os olhos aos seus parceiros perigosos e os católicos queimavam Giordano Bruno; os piratas sarracenos comiam-nos cozidos e crus, mas os corsários, de alta patente, de Sua Majestade britânica, incendiavam as colónias espanholas nas Caraíbas; Ben Laden e Saddam Hussein são inimigos ferozes da civilização ocidental, mas dentro da civilização ocidental tivemos senhores que se chamavam Hitler ou Estaline (Estaline era tão mau que foi sempre definido como oriental, ainda que tenha estudado no seminário e lido Marx).
 

 


Não, o problema dos parâmetros não se põe em perspectiva histórica, mas sim em perspectiva contemporânea.
Ora, uma das coisas louváveis das culturas ocidentais (livres e pluralistas e estes são os valores que nós consideramos irrenunciáveis) é que se aperceberam há muito tempo que a mesma pessoa pode ser levada a manobrar parâmetros diferentes e entre si contraditórios, sobre questões diferentes. Por exemplo, considera-se um bem o prolongamento da vida e um mal a poluição atmosférica. Porém, fomos também alertados para o facto de, esses mesmos grandes laboratórios onde se estuda o prolongamento da vida e que necessitam para tal de utilizar um sistema de transmissões e abastecimento energético que depois, de motu proprio, produzem a poluição. A cultura ocidental produziu a capacidade de pôr livremente a nú as suas próprias contradições.

 

Talvez não as resolvam, mas sabe que as tem e discute-as. No fim de contas todo o debate sobre o global - sim e o global - não abordaremos aqui, a questão dos agitadores profissionais "os fatos negros" (black block - N.T.), que se manifestam destruindo tudo. Como é suportável uma quota de globalização positiva evitando os riscos e as injustiças da globalização perversa. Como se pode prolongar a vida, até aos milhões de africanos que morrem de sida (e, ao mesmo tempo, prolongar também a nossa) sem aceitar uma economia planetária que faz morrer de fome os infectados com sida e nos faz engolir alimentos poluídos.

 

 

 Mas mesmo esta critica dos parâmetros, que o Ocidente persegue e encoraja, percebe-se como a questão dos parâmetros seja delicada. É justo e civilizado proteger o segredo bancário? Muitíssimos julgam que sim. Mas se este segredo permite aos terroristas terem os seus dinheiros na cidade de Londres? Então, a defesa da assim chamada privacidade é um valor positivo ou duvidoso? Nós pomos continuamente em discussão os nossos parâmetros. O mundo ocidental fá-lo a tal ponto que permite aos próprios cidadãos rejeitar como positivo o parâmetro do desenvolvimento tecnológico e de se tornarem budistas ou irem viver em comunidades onde não se usam pneus, nem sequer para as carroças de cavalos. A escola deve ensinar a analisar e discutir os parâmetros sobre os quais se regem as nossas afirmações passionais.

O problema que a antropologia cultural não resolveu é o que se faz quando o membro de uma cultura, cujos princípios até aprendemos a respeitar, vem viver em nossa casa. Na realidade a maior parte das reacções racistas no Ocidente não são devidas ao facto de os animistas viverem no Mali (basta que estejam em sua casa, diz de facto a Lega), mas que os animistas venham viver connosco. E a autorização de ingresso para os animistas? Ou para quem quer orar em direcção a Meca? Ou se querem usar a "burka"? Se querem castrar os seus rapazes? Se (como acontece com certas seitas ocidentais) recusam a transfusão de sangue às suas crianças doentes? Se o último comedor de homens da Nova Guiné (admitamos que ainda existe) quer juntar-se a nós e comer um jovem assado pelo menos todos os domingos?

Sobre o comedor de homens estamos todos de acordo, metemo-lo na cadeia (e principalmente porque não são um bilião), sobre as raparigas que vão para a escola com a "burka", não vejo porquê fazer tragédia se elas gostam assim, sobre a castração, o debate está no entanto aberto (existe até quem seja de tal modo tolerante para sugerir fazê-lo nas unidades sanitárias locais, assim a higiene seria assegurada), mas o que fazemos por exemplo com a questão de que as mulheres muçulmanas possam ser fotografadas com o véu para o passaporte? Temos as leis, iguais para todos, que estabelecem os critérios de identificação dos cidadãos, e não creio se possa renunciar a elas.

Eu quando visitei uma mesquita tirei os sapatos, porque respeitava as leis e os costumes do país hospede. Como é que a pomos com a foto velada? 

 

Creio que neste casos se pode negociar. No fundo, as fotos dos passaportes são sempre infiéis e servem para o que servem, se se estudassem cartões magnéticos que reagissem à marca da policia e quem quisesse este tratamento privilegiado pagava-o com eventual sobre taxa. E se depois estas mulheres frequentarem as nossas escolas poderão também vir a conhecer direitos que não acreditavam ter, assim como muitos ocidentais foram às escolas alcorânicas e decidiram livremente tornar-se muçulmanos. Reflectir sobre os nossos parâmetros significa, também, decidir que estamos prontos para tolerar tudo, mas que certas coisas são para nós intoleráveis.

O Ocidente dedicou fundos e energias a estudar os usos e costumes dos "Outros", mas nunca ninguém consentiu, verdadeiramente, aos "Outros", que estudassem os usos e costumes do Ocidente. Excepção feita às escolas mantidas pelos brancos no Ultramar, ou permitindo aos "Outros" mais ricos irem estudar para Oxford ou Paris - e, por outro lado, vê-se o resultado: estudam no Ocidente e em seguida voltam a casa e organizam movimentos fundamentalistas, porque se sentem naturalmente ligados aos seus compatriotas, que não têm acesso a esses estudos (a história, aliás, é velha: pela independência da Índia, bateram-se intelectuais que tinham estudado com os ingleses).

Antigos viajantes árabes e chineses tinham estudado algumas coisas dos países onde o Sol se põe, mas são coisas das quais sabemos muito pouco. Quantos antropólogos africanos e chineses vieram estudar o Ocidente para contá-lo, não só aos seus concidadãos mas também a nós, quer dizer, contar-nos como eles nos vêm? Existe há alguns anos uma organização internacional denominada "Transcultura", que se bate por uma "antropologia alternativa". Proporcionou a estudiosos africanos que nunca tinham estado no Ocidente a possibilidade de apresentarem uma descrição da província francesa e da sociedade bolonhesa. Posso garantir-vos que - quando lemos que duas das observações mais estúpidas se referiam ao facto de os europeus levarem os seus cães a passear e de se porem nus à beira-mar -, bem, digo-vos que o olhar recíproco começou a funcionar em ambos os sentidos e originou discussões interessantes.

 

 Neste momento, e tendo em vista um convénio final que se realizará em Bruxelas, em Novembro, três chineses - um filósofo, um antropólogo e um artista - estão em vias de terminar a viagem de Marco Polo, mas às avessas, salvo que, em vez de se limitarem a escrever o seu Milione, gravam e filmam. Francamente, não sei o que as suas observações lhes revelarão de nós e como poderão explicá-las aos chineses, mas sei que essas coisas também nos poderão ser explicadas. Imagine-se que são convidados fundamentalistas muçulmanos a conduzir estudos sobre fundamentalismo cristão (desta vez, não entram os católicos: são protestantes americanos mais fanáticos do que um ayatollah que tentam eliminar da escola qualquer referência a Darwin). Bom, creio que o estudo antropológico do fundamentalismo de outrem pode servir para compreender melhor a natureza do mesmo. Vêm estudar o nosso conceito de guerra santa (poderei aconselhar-lhes muitos escritos interessantes, até recentes) e talvez vejam com olho crítico a ideia de guerra santa em sua casa. No fundo, nós, ocidentais, reflectimos sobre os limites do nosso próprio modo de pensar descrevendo la pensée sauvage.

Um dos valores de que a civilização ocidental fala muito é a aceitação da diferença. Teoricamente, estamos todos de acordo: é politically correct dizer-se em público que alguém é gay, mas, depois, em casa, diz-se, rindo à socapa, que é um frouxo. Que fazer para ensinar a aceitação da diferença? A Academia Universal das Culturas pôs em linha um site onde se elaboram materiais sobre temas diversos (tais como religião, usos e costumes, etc.), para os educadores, sejam de que países forem, que queiram ensinar aos seus alunos como se aceitam aqueles que são diferentes de si. Acima de tudo, decidiu-se que não se dissessem mentiras às crianças, afirmando que todos somos iguais. As crianças compreendem, muito bem, que alguns vizinhos, ou companheiros de escola, não são iguais a si, têm uma pele de cor diferente, os olhos em forma de amêndoa, os cabelos mais encaracolados, ou mais lisos, comem coisas estranhas, não fazem a primeira comunhão. Não basta dizer-lhes que são todos filhos de Deus, porque até os animais são filhos de Deus e, contudo, os rapazes nunca viram uma cabra no estrado a ensinar-lhes ortografia. Logo, é necessário dizer às crianças que os seres humanos são muito diferentes entre si e explicar-lhes bem em que coisas são diferentes, para, depois, lhes mostrar que estas diversidades são uma fonte de riqueza.

 

 Um professor de uma cidade italiana deveria ajudar os seus alunos italianos a compreender porque é que outros rapazes oram a uma divindade diferente, ou tocam uma música que não parece o rock. Naturalmente, o mesmo deverá fazer um educador chinês junto das crianças chinesas que vivem próximo de uma comunidade cristã. O passo seguinte será mostrar que existe alguma coisa em comum entre a nossa e a sua música e que até o seu Deus recomenda algumas coisas boas. Objecções possíveis: nós fá-lo-emos em Florença, mas, depois, fá-lo-ão também em Cabul? Bem, esta objecção é tanto mais válida quanto mais longe se estiver dos valores da civilização ocidental. Nós somos uma civilização pluralista, porque aceitamos em nossa casa heréticos das mesquitas e não podemos rejeitá-los só porque em Cabul se metem na cadeia os que propagam o cristianismo. Se o fizéssemos, tornar-nos-íamos, também nós, talibãs.

 

O parâmetro da tolerância pela diversidade é certamente um dos mais fortes e dos menos discutíveis e nós consideramos madura a nossa cultura, porque sabe tolerar a diversidade, e bárbaros os que, mesmo pertencentes à nossa cultura, não a toleram. Ponto, parágrafo. De outro modo, seria como se decidíssemos: se numa certa área do globo existem ainda canibais, nós vamos comê-los - assim, aprendem. Esperamos que, já que permitimos as mesquitas em nossa casa, um dia haja igrejas cristãs, ou não se bombardeiem os budas em sua casa. Isto acreditamos nós, na bondade dos nossos parâmetros.

Muita é a confusão debaixo do Sol. Destes tempos, virão coisas muito curiosas. Parece que a defesa dos valores do Ocidente se tornou uma bandeira da direita, enquanto a esquerda é o habitual amigo islâmico. Ora, à parte o facto de existir uma direita e um catolicismo integrista decididamente terceiro-mundistas e filoárabes, digo ainda que não se tem em linha de conta um fenómeno histórico que está debaixo dos olhos de todos. A defesa dos valores da ciência, do desenvolvimento tecnológico e da cultura ocidental moderna, em geral, foi sempre uma característica das alas laicas e progressistas. Mas não só, pois de uma ideologia de progresso tecnológico e científico se intitularam todos os regimes comunistas. O Manifesto,de 1848, abre com um elogio desapaixonado da expansão burguesa: Marx não diz que é necessário inverter o curso e passar ao modo de produção asiático; diz apenas que destes ou daqueles valores e destas ou daquelas conquistas se devem apropriar os proletários.

Em sentido contrário esteve sempre o pensamento reaccionário (no sentido mais nobre do termo), pelo menos no início, com a não aceitação da Revolução Francesa, opondo-se à ideologia laica do progresso e afirmando que se deve voltar aos valores da Tradição. Só alguns grupos neonazis se prendem a uma ideia mítica do Ocidente e estariam prontos a expulsar todos os muçulmanos para Stonehenge. Os mais sérios dos pensadores da Tradição (entre eles, até muitos que votam Alleanza Nazional) revoltaram-se, sempre, mais com os ritos e mitos dos povos primitivos, ou com a lição budista, do que o próprio Islão, como fonte ainda actual da espiritualidade alternativa. Estiveram sempre lá a recordar-nos que nós não somos superiores, mas, sim, insensíveis para a ideologia do progresso, e que a verdade, devemos procurá-la entre os místicos sofistas, ou entre os dervixes dançantes. E estas coisas, não sou eu que as digo: disseram-nas sempre eles. Basta ir a uma livraria e procurar nas estantes certas.

Neste sentido, está a abrir-se uma curiosa brecha na direita. Mas, com certeza, é só um sinal de que nos momentos de grande perturbação (e certamente vivemos um deles) "ninguém sabe de que terra é". No entanto, é exactamente nos momentos de perturbação que é necessário saber usar a arma da análise e da crítica - das nossas superstições como das dos outros. Espero que tudo isto se discuta nas escolas e não só nas conferências de imprensa.

Exclusivo DN/"La Repubblica"

 

 

 

                                      

 

The Politics of Rage: Why Do They Hate Us?

Bin Laden and his fellow fanatics are products of failed societies that breed their anger. America needs a plan that will not only defeat terror but reform the Arab world

 By Fareed Zakaria
 NEWSWEEK

 Oct. 15 issue  To the question “Why do the terrorists hate us?” Americans could be pardoned for answering, “Why should we care?” The immediate reaction to the murder of 5,000 innocents is anger, not analysis. Yet anger will not be enough to get us through what is sure to be a long struggle. For that we will need answers

       THE ONES WE HAVE HEARD so far have been comforting but familiar. We stand for freedom and they hate it. We are rich and they envy us. We are strong and they resent this. All of which is true. But there are billions of poor and weak and oppressed people around the world. They don’t turn planes into bombs. They don’t blow themselves up to kill thousands of civilians. If envy were the cause of terrorism, Beverly Hills, Fifth Avenue and Mayfair would have become morgues long ago. There is something stronger at work here than deprivation and jealousy. Something that can move men to kill but also to die.
       Osama bin Laden has an answer—religion. For him and his followers, this is a holy war between Islam and the Western world. Most Muslims disagree. Every Islamic country in the world has condemned the attacks of Sept. 11. To many, bin Laden belongs to a long line of extremists who have invoked religion to justify mass murder and spur men to suicide. The words “thug,” “zealot” and “assassin” all come from ancient terror cults—Hindu, Jewish and Muslim, respectively—that believed they were doing the work of God. The terrorist’s mind is its own place, and like Milton’s Satan, can make a hell of heaven, a heaven of hell. Whether it is the Unabomber, Aum Shinrikyo or Baruch Goldstein (who killed scores of unarmed Muslims in Hebron), terrorists are almost always misfits who place their own twisted morality above mankind’s.

 

ADMIRATION FOR BIN LADEN
       
But bin Laden and his followers are not an isolated cult like Aum Shinrikyo or the Branch Davidians or demented loners like Timothy McVeigh and the Unabomber. They come out of a culture that reinforces their hostility, distrust and hatred of the West—and of America in particular. This culture does not condone terrorism but fuels the fanaticism that is at its heart. To say that Al Qaeda is a fringe group may be reassuring, but it is false. Read the Arab press in the aftermath of the attacks and you will detect a not-so-hidden admiration for bin Laden. Or consider this from the Pakistani newspaper The Nation: “September 11 was not mindless terrorism for terrorism’s sake. It was reaction and revenge, even retribution.” Why else is America’s response to the terror attacks so deeply constrained by fears of an “Islamic backlash” on the streets? Pakistan will dare not allow Washington the use of its bases. Saudi Arabia trembles at the thought of having to help us publicly. Egypt pleads that our strikes be as limited as possible. The problem is not that Osama bin Laden believes that this is a religious war against America. It’s that millions of people across the Islamic world seem to agree.

 This awkward reality has led some in the West to dust off old essays and older prejudices predicting a “clash of civilizations” between the West and Islam. The historian Paul Johnson has argued that Islam is intrinsically an intolerant and violent religion. Other scholars have disagreed, pointing out that Islam condemns the slaughter of innocents and prohibits suicide. Nothing will be solved by searching for “true Islam” or quoting the Quran. The Quran is a vast, vague book, filled with poetry and contradictions (much like the Bible). You can find in it condemnations of war and incitements to struggle, beautiful expressions of tolerance and stern strictures against unbelievers. Quotations from it usually tell us more about the person who selected the passages than about Islam. Every religion is compatible with the best and the worst of humankind. Through its long history, Christianity has supported inquisitions and anti-Semitism, but also human rights and social welfare.

 

WHY NOW?
       
Searching the history books is also of limited value. From the Crusades of the 11th century to the Turkish expansion of the 15th century to the colonial era in the early 20th century, Islam and the West have often battled militarily. This tension has existed for hundreds of years, during which there have been many periods of peace and even harmony. Until the 1950s, for example, Jews and Christians lived peaceably under Muslim rule. In fact, Bernard Lewis, the pre-eminent historian of Islam, has argued that for much of history religious minorities did better under Muslim rulers than they did under Christian ones. All that has changed in the past few decades. So surely the relevant question we must ask is, Why are we in a particularly difficult phase right now? What has gone wrong in the world of Islam that explains not the conquest of Constantinople in 1453 or the siege of Vienna of 1683 but Sept. 11, 2001?

Only when you get to the Middle East do you see in lurid colors all the dysfunctions that people conjure up when they think of Islam today. In Iran, Egypt, Syria, Iraq, Jordan, the occupied territories and the Persian Gulf, the resurgence of Islamic fundamentalism is virulent, and a raw anti-Americanism seems to be everywhere. This is the land of suicide bombers, flag-burners and fiery mullahs. As we strike Afghanistan it is worth remembering that not a single Afghan has been tied to a terrorist attack against the United States. Afghanistan is the campground from which an Arab army is battling America.

    But even the Arab rage at America is relatively recent. In the 1950s and 1960s it seemed unimaginable that the United States and the Arab world would end up locked in a cultural clash. Egypt’s most powerful journalist, Mohamed Heikal, described the mood at the time: “The whole picture of the United States... was a glamorous one. Britain and France were fading, hated empires. The Soviet Union was 5,000 miles away and the ideology of communism was anathema to the Muslim religion. But America had emerged from World War II richer, more powerful and more appealing than ever.” I first traveled to the Middle East in the early 1970s, and even then the image of America was of a glistening, approachable modernity: fast cars, Hilton hotels and Coca-Cola. Something happened in these lands. To understand the roots of anti-American rage in the Middle East, we need to plumb not the past 300 years of history but the past 30.