4-7-2003

 

Carlo Michelstaedter

 

(1887-1910)

 

 

Site: http://www.michelstaedter.it/

 

Tesi

 

 

 

 

Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia nel 1887 in una famiglia ebrea di lingua italiana. Studiò a fondo Platone e i presocratici (si veda il suo Dialogo della salute), la Bibbia e i tragici greci, i grandi poeti della nostra letteratura, sempre anelando a quel mondo incondizionato che sta al di là dei limiti della vita umana. Desiderava dunque fuggire da un qui-ed-ora in cui si doveva subire la volontà di un Assoluto imperscrutabile, per annullarsi e diventare egli stesso assoluto.

Trasferitosi a Firenze vi frequentò la facoltà di lettere. Terminata nella città natale (ottobre del 1910) la stesura della tesi di laurea (La persuasione e la rettorica) decise di porre termine alla sua fatica di vivere con un colpo di rivoltella.

Come risulta evidente anche nelle sue poesie, Michelstaedter non riesce ad accettare il mistero della creazione, non crede in fondo né ad un amore divino né tantomeno ad un suo riflesso efficace nell'uomo, e desidera solo dissolversi nel nulla.

Nonostante questo sfondo pessimistico e nichilista, la poesia di Michelstaedter ci dona immagini di struggente bellezza a volte un po' giocate altre volte vere e perfette nell'uso della lingua.

 

 

Carlo Michelstaedter

 

 

Estou deitado na relva
no dorso do monte, e bebe o sol
o meu corpo que o vento acaricia
e roçam a minha cabeça e flores e as ervas
que o vento agita
e o zumbido do enxame dos insectos.
Das andorinhas o vôo azafamado
marca de curvas rotas o céu azul
e traz no alto vastos círculos o largo
vôo dos falcões...
Vida?! Vida?! Aqui a relva, aqui a terra,
aqui o vento, aqui os insectos, aqui os pássaros,
e mesmo assim entre eles sente vê goza
fica debaixo do vento fazendo-se beliscar
fica debaixo do sol para sugar o calor
fica debaixo do céu sobre a boa terra
esse que eu chamo "eu", mas que não sou eu.
Não, não sou esse corpo, esses membros
prostrados aqui na relva sobre a terra,
mais do que eu possa ser os insectos ou a relva ou as flores
ou os falcões lá no ar ou o vento ou o sol.
Eu apenas sou, distante, eu sou diferente –
outro sol, outro vento e mais soberbo
vôo para outros céus é a minha vida...
Mas agora aqui o que espero, e a minha vida
por que não vive, por que não acontece?
O que é essa luz, o que é esse calor,
esse zumbir confuso, essa terra,
esse céu que ameaça? Me é estrangeiro
o aspecto de cada coisa, me é inimiga
essa natureza! Chega! Quero sair
desta trama de pesadelos! A vida!
A minha vida! O meu sol!
Mas pelo céu
sobem as nuvens desde o horizonte,
já roçam o sol, já à terra
invejam a luz e o calor.
Um arrepio percorre a natureza
e rígido me corre pelos membros
ao soprar o vento. Mas o que faço
comprimido sobre a terra aqui na relva?
Agora me levanto, agora tenho fome, agora me apresso,
agora sei a minha vida,
já que conheço a mesma ignorância –
a natureza inimiga agora me é querida
que me dará abrigo e nutrição
agora vou zumbir como os insectos.

 

Tradução de Prisca Agustoni. De AGULHA, revista de cultura  n.º 32 - fortaleza, são paulo - janeiro de 2003

RISVEGLIO

 

 

Giaccio fra l'erbe

sulla schiena del monte, e beve il sole

il mio corpo che il vento m'accarezza

e sfiorano il mio capo i fiori e l'erbe

ch'agita il vento

e lo sciame ronzante degli insetti. -

Delle rondini il volo affaccendato

segna di curve rotte il cielo azzurro

e trae nell'alto vasti cerchi il largo

volo dei falchi…

Vita?! Vita?! qui l'erbe, qui la terra,

qui il vento, qui gl'insetti, qui gli uccelli,

e pur fra questi sente vede gode

sta sotto il vento a farsi vellicare

sta sotto il sole a suggere il calore

sta sotto il cielo sulla buona terra

questo ch'io chiamo "io", ma ch'io non sono.

No, non son questo corpo, queste membra

prostrate qui fra l'erbe sulla terra,

più ch'io non sia gli insetti o l'erbe o i fiori

o i falchi su nell'aria o il vento o il sole.

Io son solo, lontano, io son diverso -

altro sole, altro vento e più superbo

volo per altri cieli è la mia vita…

Ma ora qui che aspetto, e la mia vita

perché non vive, perché non avviene?

Che è questa luce, che è questo calore,

questo ronzar confuso, questa terra,

questo cielo che incombe? M'è straniero

l'aspetto d'ogni cosa, m'è nemica

questa natura! basta! voglio uscire

da questa trama d'incubi! la vita!

la mia vita! il mio sole!

Ma pel cielo

montan le nubi su dall'orizzonte,

già lambiscono il sole, già alla terra

invidiano la luce ed il calore.

Un brivido percorre la natura

e rigido mi corre per le membra

al soffiare del vento. Ma che faccio

schiacciato sulla terra qui fra l'erbe?

Ora mi levo, ché ora ho un fine certo,

ora ho freddo, ora ho fame, ora m'affretto,

ora so la mia vita,

ché la stessa ignoranza m'è sapere -

la natura inimica ora m'è cara

che mi darà riparo e nutrimento,

ora vado a ronzar come gl'insetti. –

 

 

Sul S. Valentin, giugno 1910

 

 

 

VOGLIO E NON POSSO E SPERO SENZA FEDE

I

 

Cade la pioggia triste e senza posa

a stilla a stilla

e si dissolve. Trema

la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa

sembra che debba

nell'ombra densa dileguare e quasi

nebbia bianchiccia perdersi e morire

mentre filtri voluttüosamente

oltre i diafani fili di pioggia

come lame d'acciaio vibranti.

Così l'anima mia si discolora

e si dissolve indefinitamente

che fra le tenui spire l'universo

volle abbracciare.

Ahi! che svanita come nebbia bianca

nell'ombra folta della notte eterna

è la natura e l'anima smarrita

palpita e soffre orribilmente sola

sola e cerca l'oblio.

 

II

 

"Guardi dove cammina! o 'che 'gli è cieco?".

M'erutta in faccia con fetor di vino

un popolano dondolando l'anca.

In vasta curva costeggiando il fiume

tremola ancor la luce dei fanali

e l'Arno scorre sonnacchioso e grigio,

l'acque melmose.

Spicca dei colli ancor la massa oscura

e San Miniato avvolto nella nebbia

ombra nell'ombra, -

fiaccola rossa dai camini neri

batte nell'aria, e l'alito affannoso

ferve di vita.

E risponde dall'anima mia triste

un'ansïosa brama di vittoria

ed un bisogno amaro di carezze:

forza incosciente - fiaccola fumosa.

 

III

 

O vita, o vita ancor mi tieni, indarno

l'anima si divincola, ed indarno

cerca di penetrar il tuo mistero

cerca abbracciare in un amplesso immenso

ogni tuo aspetto. -

Amore e morte, l'universo e 'l nulla

necessità crudele della vita

tu mi rifiuti.

 

 (Febbraio 1907)

 

 

 

 

 

 

 

I

A che mi guardi fanciulla con gli occhi pieni di luce,

con gli occhi azzurri profondi ed al volto ti sale una fiamma?

Non ha sole la mia giovinezza, non conta gli anni il mio core

l'anima mia dolorosa non sa le primavere.

Fanciulla perché ti soffermi? perché t'avvicini al mio core?

perché o fanciulla l'avvolgi nel fuoco tuo giovanile?

Fanciulla è freddo il mio core, è freddo il mio core lontano,

non sente l'alito ardente della tua giovane vita.

 

II

Quando pei blandi tramonti, per gli ampi meriggi infocati

sui pallidi volti sussurra amor violente lusinghe,

e quando maggio riarde il petto all'uomo che vive

il core mio tace o fanciulla. -

E quando pel fosco piano cui plumbeo il cielo incombe

divampa la fiamma ribelle sospinta dal vento dell'odio

dell'odio doloroso delle moltitudini vinte

ed arde ogni giovane core e piange nell'aria fumosa

lo spasimo disperato, e suona l'urlo più alto

quando frementi si tendono gli archi di tutte le vite

esso tace o fanciulla.

E quando la mamma mi trae dalle aride ciglia una stilla

e quando la morte mi tocca, mi stringe il core convulso

e caldo m'ottenebra gli occhi il sangue di quanti ho amato

esso tace ancora o fanciulla.

E quando m'irride la folla e quando m'innalza la lode

e quando sfacciata mi sento la forza dei giovani anni

il cor mio tace o fanciulla un superbo infinito silenzio.

(Pasqua 1907)

 

 

 

 

Senti Iolanda come è triste il sole

e come stride l'alito del vento -

passa radendo i vertici fioriti

un nembo irresistibile.

Senti, è sinistro il grido degli uccelli

vedi che oscura è l'aria

ed è fuliggine

nel raggio d'ogni luce e dal profondo

sembra levarsi tutto quanto è triste

e doloroso nel passato e tutte

le forze brute in fremito ribelle

contaminarsi irreparabilmente.

Scompose il nembo irreparabilmente

il tuo sorriso,

Iolanda, e mi percorse

con ignoto terrore il core altero. -

Che è questo che s'attarda insidïoso

nel nostro sguardo allor che senza fine

immoto intenso dalle nere ciglia

arde di vicendevole calore?

Perché di fosca fiamma la pupilla

s'accende nel languore disperato?

Perché non ride amore

come rideva amico nelle tenui

sere di maggio?

È più forte, più forte

questa torbida fiamma di desio

e mentre tutto intorno a me precipita

mente crolla nel vortice funesto

ogni affetto, ogni fede, ogni speranza

sbatte le rosse lingue e s'attorciglia

inestinguibile.

E più, e più, e più nel cielo fumido

arde l'ansia selvaggia e dolorosa

purché io sugga dai tuoi occhi il fascino

purché io senta le tue mani fremere

purché io colga alla tua bocca fervida

la voluttà infinita del tuo bacio

Ïolanda, e l'ebbrezza infinita. -

(Giugno 1907)

 

 

 

 

 
Carlo Michelstaedter

 

Che ti valse la forte speranza, che ti valse la fede che non crolla

che ti valse la dura disciplina, l'ansia che t'arse il core

o mortale che chiedi la tua sorte, se dopo il tormento diuturno

se dopo la rinuncia estrema - non muore la brama insaziata

la forza bruta e selvaggia, se ancora nel tedio muto

insiste e vivo ti tiene; - perché tu senta la morte

tua ogni istante nell'ora che lenta scorre e mai finita

perché tu speri disperando e attenda ciò che non può venire

perché il dolore cieco più forte sia del dolore che vide

la stessa vanità di sé stesso? - Tu sei come colui che nella notte

vide l'oscurità vana ed attese da dio chiedendo la divina luce

e d'ora in ora il fiero cuor nutrendo

di più forte volere e la speranza

esaltando più viva, quando il giorno

con la luce pietosa

alla vita mortale

ogni cosa mortale riadulava

non ei si scosse che con l'occhio fiso

vedeva pur la notte senza stelle. -

Come il tuo corpo che il sole accarezza

gode ed accoglie avido la luce

perché non anche l'animo rivolgi

ai lieti e cari giochi? Vedi intorno

fin dove giunge il guardo, la campagna

ride alla luce amica.

 

 

 

Amico - mi circonda il vasto mare

con mille luci - io guardo all'orizzonte

dove il cielo ed il mare

lor vita fondon infinitamente. -

Ma altrove la natura aneddotizza

la terra spiega le sue lunghe dita

ed il sole racconta a forti tratti

le coste cui il mare rode ai piedi

ed i verdi vigneti su coronano.

E giù: alle coste in seno accende il sole

bianchi paesi intorno ai campanili

e giù nel mare bianche vele erranti

alla ventura. -

A me d'accanto, sullo stesso scoglio

sta la fanciulla e vibra come un'alga,

siccome un'alga all'onda varia e infida

philobatheía. -

S'avviva al sole il bronzo dei capelli

ed i suoi occhi di colomba tremuli

guardano il mare e guardano la costa

illuminata. -

Ma sotto il velo dell'aria serena

sente il mistero eterno d'ogni cosa

costretta a divenire senza posa

nell'infinito.

Sente nel sol la voce dolorosa

dell'universo, - e l'abisso l'attira

l'agita con un brivido d'orrore

siccome l'onda suol l'alga marina

che le tenaci aggrappa

radici nell'abisso e ride al sole. -

Amico io guardo ancora all'orizzonte

dove il cielo ed il mare

la vita fondon infinitamente.

Guardo e chiedo la vita

la vita della mia forza selvaggia

perch'io plasmi il mio mondo e perché il sole

di me possa narrar l'ombra e le luci -

la vita che mia dia pace sicura

nella pienezza dell'essere.

E gli occhi tremuli della colomba

vedranno nella gioia e nella pace

l'abisso della mia forza selvaggia -

e le onde varie della mia esistenza

l'agiteranno or lievi or tempestose

come l'onda del mar l'alga marina

che le tenaci aggrappa

radici nell'abisso e ride al sole.-

 

(Pirano, agosto 1908)

 

 

 

 

 

 

Nostalgia

 

Ma un vento lieto giù dalla montagna

invade la natura senza luce

che per la pioggia e per la nebbia si dissolve

e delle nubi oscure la continua

trama dirompe, e la diffusa nebbia

leva ed in lembi bianchi la sospinge

giocosamente;

e ride il sole volto ad occidente

ed i monti lontani e le colline

boscose e la pianura

risuscita ugualmente illuminando

nella lor gloria varia

delle ben note forme all'abitante.

Ma splendono più chiare e più serene

festevolmente,

poiché più luminosi si rimandan

i generosi a lor raggi del sole.

Riluce il monte e il piano

e il ciel riluce

di verde luce presso all'orizzonte,

e in alto nell'azzurro

l'ultime nubi fuggono ed il sole

con il lieto riso

tinge di rosa gli orli alle fuggenti.

Ahi! come tutta la natura in breve

si rasserena

nella pacata luce,

e la pena passata e il lungo tedio

dei giorni grigi oblia: ché solo a gioco

s'era offuscata: ed or con nuovo gioco

si rinnovella

e rifulge più pura.

Ma il cor mi punge con tristezza amara

che il dì ripensa della gioia

e l'alba luminosa e la speranza

folle e sicura, quando

con lieto viso incontro al nuovo sole

levai il primo canto, e la sua luce

era certa promessa alla mia speme

- e le dolci figure del mio sogno

che appena avvicinate dileguaro

tristi, perch'io ver lor fervidamente

mi protendessi

e in me le volessi, me stesso in loro

tutto esaurire.

Voler e non voler per più volere

mi trattenne sull'orlo della vita

ad angosciarmi in aspettar mia volta

ed ai giuochi d'amore ed alle imprese

giovanili mi fece disdegnoso.

- A qual pro? Ma alla veglia dolorosa

una fiamma splendeva e la nutriva

una speme più forte.

Ché se al lieto commercio e del piacere

al giocondo convito l'imperioso

battere mi togliea del mio volere

impazïente, e mi togliea 'l fatale

precipitar dell'ora, nel futuro

pur m'indicava la mia ferma fede

un giorno ed una gioia senza fine

e l'affrettava.

Ahi, quanto pur m'illuse la mortal

mia vista che di fuor ci finge certo

quanto ci manca sol perché ci manca -

"vuoto il presente, vuoto nel futuro

senza confini ogni presente, placa

il voler affannoso!

non chieder più che non possa natura!".

Ma il cor vive, e vuole, e chiede e aspetta

pur senza speme, aspetta e giorno ed ora

e girono ed ora né sa che s'aspetta

e inesorabilmente

passano l'ore lente.

Così è fuggita e fugge giovinezza

ed i miei sogni e la speranza antica

nel mio cupo aspettar ancor ritrovo

insoddisfatti.

Che mi giova o natura luminosa

l'armonia del tuo gioco senza cure?

Ahi, chi il tuo ritmo volle preoccupare

rientrar non può nei tuoi eterni giri

ad ozïare

nel lavoro giocondo ed oblïoso.

È suo destino attender senza speme

né mutamento,

vegliando, il passar de l'ore lente.

 

(Dicembre 1909, antivigilia dell'anno nuovo)

 

 

 

 

Aprile

 

Che più d'un giorno è la vita mortale?

Nubil'e brev'e freddo e pien di noia,

che po bella parer ma nulla vale.

(Petrarca, Triumphus Temporis)

Il brivido invernale e il dubbio cielo

e i nembi oscuri che al novello amore

han fatto schermo della terra antica

dispersi a un tratto, al sol ride la terra

che d'erbe e fiori ancor s'è ricoperta

- se pur il ciel di nubi ancora svarii,

onde occhieggian le stelle nelle notti,

e nere fra il lor vario scintillare

traggan le lunghe dita pel sereno

che al piano oscura ed ai profili neri

degli alberi dei monti si congiungono.

Ma nel cielo e nel piano, ma nell'aria,

ma nello sguardo della tua compagna

e nel pallido viso,

ma nel tuo corpo, ma per la tua bocca

canta ciò che non sai: la primavera.

Così mi tragge a me stesso diverso

e amor m'induce e desiderio, ancora

ch'io non sappia per che, pur fiduciosi.

Ché pur in me natura si nasconde

insidiosa e ignaro me sospinge.

Ahi, che mi vale, se pur fugge l'ora

e mi toglie da me sì ch'io non possa

saziar la mia fame ora qui tutta?

Ma solo e miserabile mi struggo

lontano e solo, anco s'a te vicino

parlo ed ascolto, o mia sola compagna.

Mentre di tra le dita delle nubi

a che occhieggian le stelle nel sereno?

Già trapassa la notte e nuove fiamme

leverà il sole ch'ei rispenga tosto:

passano i giorni e già sarà qui 'l verno

e il sol sorgendo pallido e incurante

farà fiorire il fango per le strade.

A che occhieggian le stelle nel sereno?

Qui bulica la terra e qui si muore,

cantano i galli e stridon le civette.

O gioia del novello nascimento,

o nuovo amore antico!

O vita, chi ti vive e chi ti gode

che per te nasce e vive ed ama e muore?

Ma ogni cosa sospingi senza posa

che la tua fame tiene, e che nel vario

desiderar continua si trasmuta.

Di sé ignara e del mondo desiosa

si volge a questo e a quello che nemico

le amica il vicendevole disio,

nemica a quelli pur quando li ami

e ancora a sé per più voler nemica.

Così nel giorno grigio si continua

ogni cosa che nasce moritura,

che in vari aspetti pur la vita tiene -

ed il tempo travolge - e mentre viva

vivendo muor la dïuturna morte.

Ed ancor io così perennemente

e vivo mi tramuto e mi dissolvo

e mentre assisto al mio dissolvimento

ad ogni istante soffro la mia morte.

E così attendo la mia primavera

una ed intera ed una gioia e un sole.

Voglio e non posso e spero senza fede.

Ahi, non c'è sole a romper questa nebbia,

ma senza fine e senza mutamento

sta in ogni tempo intero ed infinito

l'indifferente tramutar del tutto.

Pur tu permani, o morte, e tu m'attendi

o sano o tristo, ferma ed immutata,

morte benevolo porto sicuro.

Che ai vivi morti quando pur sia vano

quanto la vita il pallido tuo aspetto

e se morir non sia che contiunuar

la nebbia maledetta

e l'affanno agli schiavi della vita -

- purché alla mia pupilla questa luce

che pur guarda la tenebra si spenga

e più non sappia questo ch'ora soffro

vano tormento senza via né speme,

tu mi sei cara mille volte, o morte,

che il sonno verserai senza risveglio

su quest'occhio che sa di non vedere,

sì che l'oscurità per me sia spenta.

 

(Notte 16-17 aprile 1910)

 

 

 

 

 

 

 

[Alla sorella Paula]

 

Come le rondinelle anno per anno

tornano al nido che le vide implumi,

così l'uomo nel giro dei suoi giorni

torna e ritorna al pensier della culla.

Ed ogni anno quel dì rifesteggiando

che alla fame, alla sete, che al dolore,

che alla vita mortale l'ha svegliato,

ogni anno in quel dì si riconforta

ad amar la vita.

E i parenti - che allor nel neonato,

nella creatura fragile impotente,

della speranza lor videro il frutto,

e con pavido amore a lui porgendo

quanto la vita dona a chi la chiede

del suo pianto si fecer velo agli occhi,

confidando che vesti e nutrimento

gli potessero far viver la vita,

- anno per anno poi rinnovellando

la speranza lontana ed il dolore

si fanno velo ancora agli occhi stanchi,

grazie porgendo a lui dell'esser nato,

perch'ei sia grato a lor della sua vita,

perché il muto dolore sia obliato

e la promessa vana ogni presente.

Ma l'augurio che ciò ch'ei mai non ebbe

pur un istante

promette in lunghi anni luminosi

dia la sua luce presa dal futuro

al giorno natalizio, e l'illusione

moltiplicando gli finga la fame

esser un bene e vita sufficiente

la diuturna morte.

E baci e doni e la mensa imbandita,

dolci parole in copia e dolci cose,

liete promesse e guardi fiduciosi

faccian chiara la stanza famigliare

facciano schermo alla notte paurosa…

Paula, non ti so dir dolci parole,

cose non so che possan esser care,

poiché il muto dolore a me ha parlato

e m'ha narrato quello che ogni cuore

soffre e non sa - ché a sé non lo confessa.

Ed oltre il vetro della chiara stanza

che le consuete imagini riflette

vedo l'oscurità pur minacciosa

- e sostare non posso nel deserto.

Lasciami andare, Paula, nella notte

a crearmi la luce da me stesso,

lasciami andar oltre il deserto, al mare

perch'io ti porti il dono luminoso

… molto più che non credi mi sei cara.

(2 agosto 1910)

 

 

 

Onda per onda batte sullo scoglio

- passan le vele bianche all'orizzonte;

monta rimonta, or dolce or tempestosa

l'agiatata marea senza riposo.

Ma onda e sole e vento e vele e scogli,

questa è la terra, quello l'orizzonte

del mar lontano, il mar senza confini.

Non è il libero mare senza sponde,

il mare dove l'onda non arriva,

il mare cha da sé genera il vento,

manda la luce e in seno la riprende,

il mar che di sua vita mille vite

suscita e cresce in una sola vita.

Ahi, non c'è mare cui presso o lontano

varia sponda non gravi, e vario vento

non tolga dalla solitaria pace,

mare non è che non sia un dei mari.

Anche il mare è un deserto senza vita,

arido triste fermo affaticato.

Ed il giro dei giorni e delle lune,

il variar dei venti e delle coste,

il vario giogo sì lo lega e preme

- il mar che non è mare s'anche è mare.

Ritrova il vento l'onda affaticata,

e la mia chiglia solca il vecchio solco.

E se fra il vento e il mare la mia mano

regge il timone e dirizza la vela,

non è più la mia mano che la mano

di quel vento e quell'onda che non posa…

Ché senza posa come batte l'onda

ché senza posa come vola il nembo,

sì la travaglia l'anima solitaria

a varcar nuove onde, e senza fine

nuovi confini sotto nuove stelle

fingere all'occhio fisso all'orizzonte,

dove per tramontar pur sorga il sole.

Al mio sole, al mio mar per queste strade

della terra o del mar mi volgo invano,

vana è la pena e vana la speranza,

tutta è la vita arida e deserta,

finché in un punto si raccolga in porto,

di sé stessa in un punto faccia fiamma.

(Pirano, agosto 1910)

 

 

 

 

 

Ognuno vede quanto l'altro falla

quando crede passar filo per cruna,

pur spera ognuno d'infilar sua cruna,

né perché più s'avveda dell'inganno

meno ritenta ancora la fortuna.

Ché tale è la sua sorte:

col suo filo sperar vita tramare

e con la speme giungere alla morte.