2-2-2016
Embaixada da República de Veneza junto de D. Sebastião, Rei de Portugal, em 1572
António Tiepolo (1526 - † 1582), Veneziano, desempenhou vários cargos até que em 20 de Maio de 1564, foi escolhido para Embaixador ordinário, junto do Rei Católico de Espanha. Foi nomeado depois Embaixador da Sereníssima na Polónia, mas não chegou a ocupar o lugar porque em Março de 1571 foi enviado de novo a Espanha como Embaixador extraordinário para, em nome da República, se congratular com do casamento do Rei com a Rainha Ana, filha do Imperador Maximiliano. Daí foi para Portugal a fim de convencer o Rei D. Sebastião a participar na Liga contra os Turcos. Foi escolhido terceira vez em 5 de Julho de 1572 para Embaixador extraordinário junto do Rei de Espanha, Filipe II, para as negociações da Liga contra os Turcos e oferecer os bons ofícios da República de Veneza para sanar as discórdias entre a Corte de Espanha e a de França. Em 1573, foi dirigir o Consulado de Veneza em Constantinopla, depois de reposta a paz que fora interrompida pela guerra de Cipre. Foi aí muito meritória a sua intervenção para resgatar prisioneiros cristãos nas mãos dos Turcos. Depois desta, quatro outras Embaixadas lhe foram ainda confiadas:
- ordinária, junto do Papa Gregório XIII, eleito a 3-11-1575
- extraordinária a Áustria, em 1579, para encontrar e acompanhar os príncipes austríacos que vinham a Veneza
- extraordinária, junto de Francisco de Medici, ainda em 1579, para se congratular com o casamento do Grão Duque com a Veneziana Bianca Cappello
- extraordinária, para ir aos confins de Friuli cumprimentar a Imperatriz Maria de Áustria, filha do Imperador Carlos V, mãe de Rudolfo II, a qual ia para Espanha, chamada por seu irmão, o Rei.
Desde 1571, tinha o cargo de Provedor das fortificações do Lido. Faleceu em Brescia. Foi casado com Dona Elisabetta di Niccolò Morosini, mas não teve filhos.
Deixou os documentos seguintes, ligados às suas missões:
1. Relazione di Spagna, lida no Senado em 24 de Setembro de 1567
2. Relazione di Costantinopoli, apresentada no Senado em 9 de Junho de 1576
3. Relazione di Roma, de 1578
4. Ragionamento storico della guerra di Cipro
A juntar a estas, a Relação de 1572, a seguir transcrita, na parte que respeita a Portugal. Um elemento da sua comitiva escreveu também um relato da mesma missão que intitulou Relazione curiosissima della corte di Spagna fatta l'anno 1572 da un cortigiano del Tiepolo ambasciatore della repubblica di Venezia presso Filippo II, e Relazione della corte di Portogallo fatta dallo stesso cortigiano del Tiepolo ambasciatore presso Sebastiano I di Portogallo. Desta, fez o francês M. Gachard um resumo que se encontra no seu livro Relations des ambassadeurs Vénitiens sur Charles V et Philippe II (Gallica).
Relazione di Antonio Tiepolo tornato Ambasciatore Straordinario dalle Corti di Spagna e di Portogallo nel 1572
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Sebastiano, primo di questo nome, e sesto decimo re di Portogallo, estende al presente il suo nome e le sue insegne in molte più parti e nelle più lontane che alcun altro re del mondo, perciocché lo vediamo noi ora non solo tenere alcuna cosa in ciascuna delle tre parti già cognite dagli antichi, Europa, Africa ed Asia, ma nel nuovo mondo ancora ritrovato modernamente avere qualche dominio. Che se tanta larghezza di paesi, tanta diversità di nazioni, fosse toccata a principe più copioso di uomini, non è da dubitare ch'egli non potesse, e per la ricchezza e per lo dominio, esser connumerato fra i principalissimi re dei cristiani. Ma quanto la industria e il valore dei Portoghesi gli diede, tanto gli toglie il picciolo numero delle sue genti; perché non potendo il re servirsi d'altra nazione, avviene che poche siano le navi e poche le genti con che naviga tanti gran mari e scorre tanta gran terra; onde tutto ché estenda la navigazione e il commercio sino agli ultimi termini d'oriente, che è il Giappone, per lunghezza, cominciando da Lisbona, di otto mila miglia lungo le rive dell'Africa e dell'Asia, null'altra cosa nondimeno possiede che alcune fortezze lungo le rive di tutti quei mari
Cominciando adunque da quello che tiene nell'Asia, dico che nell'India, di là dal Gange, ha una fortezza in Malacca, col mezzo della quale, per la comodità che ne ricevono le sue navi, raccoglie tutti i preziosi frutti che Dio diede al Giappone, alla China, Bengala, Pegù, Macassar, Timor, Borneo, Banda e isole Molucche, come a dir gran copia di sete bianche, garofoli e noci (moscade). Moltissime altre cose ancora vengono da quelle parti, ma sono più a gentilezza che a utilità.
Di qua dal fiume Gange, pur nella medesima India, tiene dieci fortezze: Ormuz, Diu, Bazaim, Damão, Goa, Calicut, Cochin, Colan, Cananor, e Ceylan, per via delle quali raccoglie la cannella, l'anile, e tutto il pevere di quelle parti; anzi può dirsi con verità che in niuna altra parte del mondo si vedda pevere d'alcuna sorte, perché tutto viene da questi luoghi.
Ebbe principio tal navigazione e tal commercio l'anno 1420 dall'infante don Enrico, terzo figliuolo del re Giovanni primo di questo nome; ma ebbe poi la compiuta perfezione dal re don Emanuele. Che di quanto nome e di quanto splendore sia stato a questa corona l'esser prima a scoprire nuova terra, navigare incogniti mari, e rendere a cultura, per polizia e per la santissima religione, bestialissime nazioni, non è alcuno che non lo veda; e non è poca laude aver fatto conoscere con l'esperienza quanto s'ingannassero gl'antichi stimando con loro ragioni inabitabile quella parte che gli astronomi chiamano zona torrida; perché non pur passando per quella parte, e trapassando per 35 gradi oltre l'equinoziale verso il polo antartico, ma praticandovi continuamente, fanno chiaramente conoscere ivi nascere e vivere le persone, dove essi volevano che in niuna maniera vi si nascesse e vivesse. Grandissimo è adunque l'obbligo che tutti abbiamo alla curiosità di quel generoso infante, che ci cavò da così fatte tenebre con esempio singolarissimo che gl'uomini dotti tanto non confidino nella loro scienza e ragion naturale, che non ammettano quello a che non può arrivare la sapienza degl'uomini. Ma grande obbligo deve avergli particolarmente il re Cattolico, poiché eccitato da tali navigazioni Colombo, l'anno 1492, n'è derivato che tant'oro e argento arricchisca ora la Spagna e quella corona. Grande è dunque l'onore di questa corona di Portogallo appresso il mondo, ma non è poco anco l'utile ch'essa ritrae; perché il re, per le spezierie solamente che sono cavate dall' India ed entrano in Lisbona, detratte tutte le spese, ha altre volte per qualche anno cavato la somma di 500.000 ducati ogn'anno, sebbene ora, per non essere le cose così ben governate, non cava più tanto. È ben vero essermi stato affermato da ognuno, che se fosse meglio inteso questo commercio, e che il re fosse in quelle parti più ubbidito da suoi capitani e ministri, caverebbe non solo l'utile di prima ma molto più; perché la custodia della costa del Malabar, ch'è in India di qua dal Gange, con l'armata ai suoi tempi e alla bocca del mar rosso, leverebbe del tutto il commercio dei peveri che si portano in Alessandria, perché chiuse le due porte del seno persico e del mar rosso non han più luogo per dove passare le spezierie. Ma i doni corrompendo i ministri guastano al re così gran benefizio, lasciando che Alessandria ne partecipi forse la maggior parte. Oltra un tale utile, cava ancora il re per conto dei dazi dall'istesse fortezze dell'India la somma di ducati 700,000 ogni anno, tanto è grande e frequente il commercio in quei luoghi. Ma tutto quest'utile è consumato nel mantenere il vice re, i governatori, i capitani e le armate che bisognano in quelle parti; colle quali armate si mantiene il re signore e padrone assoluto di tutta la navigazione del grandissimo mar oceano nell'oriente, onde non è alcuno, o moro o indiano, che senza licenza e patente possa navigare o contrattare per quelle parti, e le licenze sono di ogni sorte di mercanzie, eccetto che dei peveri, i quali soli sono del tutto proibiti. Quanto alla comodità, non posso dir altro se non che può sperare un giorno, col mezzo delle fortezze, e che il Turco avesse meno forza, e con l'opera degl'indiani che pur si vanno di giorno in giorno facendo cristiani, penetrar dentro alla terra e insignorirsi di gran paese; ma fino che il Turco è potente non bisogna pensarvi, perché i Portoghesi in fine son pochi.
La sicurtà poi di questo commercio, lasciando quello che tocca alle fortune del mare (del che non temono se le flotte partono a tempi debiti), è tutta fondata nelle fortezze già no minate, ma principalmente in queste tre, Ormuz, Goa, e Malacca, perché possono in queste ricevere le mercanzie, da queste dar rinfresco alle navi e caricarle, e per queste tenersi quei mari netti e liberi per i Portoghesi, o per quelli a cui par loro di dar licenza. Però essendo conosciuto questo dai Mori e dai Turchi, hanno e questi e quelli più volte tentato di spogliarne i Portoghesi, i quali nondimeno si sono sempre portati bene difendendole gagliardamente.
Tiene il re per questo effetto un viceré, il quale risiede nell'isola di Goa, con provvisione per la sua persona di 20,000 ducati ogn'anno. A costui ubbidiscono tutti i capitani che si trovano in tutte quelle fortezze. Col qual reggimento, e con l'aiuto di molti gentili Indiani (gentili si chiamano per l'idolatria), i quali naturalmente sono inimici a Turchi, quando ha bisognato, ha posto insieme la somma di 200 vascelli con un numero di 3 e 4000 Portoghesi, che rendono gl'Indiani più arditi, e con queste forze ha più volte danneggiati i Mori e i Turchi, e sempre difese le cose proprie. E acciocché non manchi il fondamento della difesa, manda il re, poco più poco manco, ogn'anno la somma di mille dei suoi Portoghesi, dei quali non ne tornano se non pochissimi; ma i capitani ritornano, essendo rinnovati di tre in tre anni, e ritornano ricchissimi, perché non è alcuno che non porti almeno il valsente di 25.000 ducati fino a 70,000 che si hanno guadagnato in quel poco di tempo. E questo sconcio guadagno è stato causa di far credere a quei che consigliano oggidì, che grandissimi rubamenti si facciano da loro a malefizio della corona, e che da questi principalmente nasca il disordine di tanti peveri che passano in Alessandria; onde per rimediarvi hanno consigliato il re che non più un sol viceré, ma tre si mandi no di tre in tre anni, acciocché l'uno in Malacca, l'altro in Goa, e il terzo in Africa faccia la residenza, attendendo ciascuno al proprio governo. E tanto sia detto di quello che appartiene ai luoghi, che sono undici fortezze, all'utile, che sarebbe di 1,200,000 ducati, alla comodità, che non è considerabile, e alla sicurezza della navigazione e commercio dell'Asia, la qual sicurezza consiste nel mantener le fortezze. Ora dirò di quello che il re tiene nell'Africa.
Nell'Africa, dalla parte del gran regno di Etiopia dominato dal prete Ianni, tiene due fortezze, Zoffala e Mozambicco, e dall'altra parte verso ponente tiene l'isola di S. Tomè, la quale è appunto sotto l'equinoziale, e l'isola della Madera (le quali isole io pongo in questo luogo per esser più congiunte a questa parte che ad alcun'altra); e nella provincia di Guinea tiene la Mina, e nella provincia di Tingi tiene tre fortezze, Mazagan, che è sopra l'oceano, Tanger e Ceuta, che sono sullo stretto di Gibilterra. Di Zoffala e Mozambico cava qualche utilità per via del commercio d'un poco d'oro che vien portato, all'incontro di altre merci di poca importanza, dai Negri; e quest'oro vien detto che sarebbe molto più se potessero i Portoghesi penetrar dentro alla terra; ma il poco numero lor vieta e vieterà sempre un tal benefizio per la distanza, che si giudica grandissima, di dove i Negri lo cavano, e per il gran numero loro, accompagnato dalla lor ferità, che è bestialissima.
Dalla Mina cava anco utilità di forse 150,000 ducati ogn'anno in tant'oro concambiato con merce di pochissima importanza; e questa mercanzia è sola del re, benché non possa fuggire d'esser rubato. Cava ancora molti negri, i quali sono venduti dai propri, quando guerreggiando fra loro gli uni restano vittoriosi degli altri. Né qui posso tacere una gran ferità, che così fra loro inimici si uccidono, e vendono alla piazza le loro carni, come si uccidono e vendono le bestie per nutrimento degli uomini. Oltre l'utile dell'oro ch' io dico, rende ancora qualche utilità dei zuccheri; ma di questo e dei negri lascia il commercio a mercanti, contentandosi delle gravezze e della sua porzione dei negri, che è la quarta parte.
Dall'isole di S. Tomè e della Madera ha gran copia di zuccheri, e per questi si fanno maggiori le gabelle; ma da S. Tomè ha anco molti negri, i quali per la maggior parte, come gli altri, sono venduti ai Castigliani, i quali portandoli al Perù e alla Nuova Spagna se ne servono per cavare l'oro e l'argento di quella parte.
Dalle tre fortezze di Tanger, Ceuta e Mazagan non ha utile alcuno, anzi spende per la custodia loro ducati 200,000 in circa ogn'anno.
Quanto alla comodità di questi luoghi, non posso dir altro senonché Mozambicco è luogo dove le navi, se hanno tempi contrari al lor ritorno dall'India, svernano aspettando la state, la quale è in quelle parti di dicembre, e gli altri mesi, che è a noi il verno, passano il gran capo di Buona Speranza e vengono a Lisbona. La comodità poi delle tre fortezze, Tanger, Ceuta e Mazagan, è che servono per porta, donde possano un giorno Portoghesi penetrar più addentro nell'Africa; e già il re pensa di tentare alcuna impresa quest'anno, si come scrissi.
Quanto alla sicurtà di Mozambico, Zoffala, la Mina e le isole dette, non ha il re che dubitare di forza, e né meno che gli sia interrotta la navigazione; perché nella terra quei negri son come bestie, e nel mare non ha il re alcuno che lo pareggi. Ma la sicurtà delle tre fortezze consiste nella guardia che vi tiene di 1500 soldati e 300 cavalli, e nel poco sapere dei Mori; i quali quando assaltarono gli anni passati Mazagan, non seppero accompagnare il giudizio al numero e al valore che dimostrarono negli assalti. Dunque in Africa tiene il re otto luoghi; l'utile è di 150,000 ducati; la comodità è, in Mozambico, per la navigazione, e la sicurtà è per la debolezza dei negri e per la potenza del re nel mare. Vediamo ora quello che tiene nel nuovo mondo.
Nella provincia del nuovo mondo chiamata il Perù tanto gode il re di quel paese quanto si trova rinchiuso dentro d'una linea immaginata da Alessandro VI dividere in due parti uguali il mondo per rimuovere le guerre che potevano nascere fra portoghesi e castigliani, i quali con le navigazioni loro a concorrenza pensavano di scorrere e conquistare indifferentemente qualunque luogo. Questa linea è immaginata, e si disegna nei mappamondi dall'un polo all'altro, lontana dal Capo Verde, ch'è nell'estremo dell'Africa verso occidente, trenta gradi di longitudine, che fanno, a 60 miglia per grado, 1800 miglia a diritto verso quella parte. Pongo anco in questa otto o nove isole, che sono in un gruppo, tutte possedute da questo re, chiamate le Azzore, ma dai portoghesi le Terzere, le quali sono lontane dal nostro emisfero intorno a 900 miglia verso ponente.
Da questa sola porzione adunque del Perù, la quale re sta dentro di questa linea, ed è chiamata il Brasil, che è fertilissima quanto si possa desiderare (perché con pochissima fatica degli uomini rende abbondanza grandissima di tutte le cose appartenenti al vivere, ma di zuccheri e di cotoni massimamente), e dall'isole dell'Azzore, non cava il re altro benefizio che l'utilità delle gabelle per le mercanzie che vi concorrono. È attissimo il paese del Brasil a dare grandissime ricchezze, ma gli uomini naturali, che si possono più veramente chiamar bestie, impediscono tanto bene, perché vivono come tali, stando tuttavia dentro nei boschi senza potersi domesticare. Ma accioché la Serenità Vostra da una sola cosa comprenda la ferità e bestialità di questi, non so se debba dire uomini, quantunque la lor figura sia umana, dico che costoro si mangiano l'un l'altro, ma con più mal uso che quelli che ho già detti di Guinea; perché non solo per l'ira, ma per diletto si empiono il ventre di carne umana, sfogandosi poi dell'odio contra l'inimico con nuova e non più immaginata non che udita maniera di crudeltà; perché dei figliuoli che essi industriosamente lasciano nascere dei prigioni, riservati solo per questo, uccidendoli e mangiandoli dinanzi al padre, banchettano e guazzano né più né meno che se fossero vitelli. Questo non ho io più letto in alcuna istoria, e nondimeno è verissimo poiché ognuno, tornato da quelle parti, lo afferma costantissimamente; aggiungendo che così questi come quelli di Guinea non riconoscono deità alcuna, cosa ancora molto più fiera dell'altra. Onde ben con ragione può dubitarsi come s'abbiano a nominare, poiché non conviene all'umanità vi vere senza alcun Dio, né trascendere a crudeltà così fatta; che se pure s'hanno a chiamar uomini, ben si potrebbe affermare quello che, con ragion naturale, filosofava un grande antico, esser fra gli uomini alcuni per lor natura servi, e ai quali così convegna esser dominati dagli altri uomini, come alle domestiche bestie, le quali male da sé saprebbero fuggir le fiere che le divoreranno, e molto meno procacciarsi il lor vivere senza la cura degli uomini.
La comodità poi che ha questo re dal Brasil non è considerabile, ma quella delle Azzore è grandissima, perché tutte le navi che ritornano dall'India, arrivando consumate dal lungo viaggio di tutte le cose, quivi prendono rinfresco e si ristorano, acconciandosi e provvedendosi di quelle cose di che le ha danneggiate la fortuna del mare; ed è opinione fermissima che senza queste non fosse possibile continuare quella navigazione, per la lunghezza della quale non possono gli uomini provvedersi di tutte le cose abbastanza. E la medesima comodità ricevono le navi di Castiglia che tornano dalla Nuova Spagna.
Della sicurtà poi di questa navigazione non può dubi tarsi, per la medesima causa ch' io dissi dell'altra, non essendo alcuno tanto potente nel mare quanto questo re. Ma perché delle isole Azzore potrebbe dubitarsi che un dì i francesi, per più comodamente scorrere il mare, s'avessero a impadronire, come fecero già della Florida, va il re disegnando di assicurarsene col far due fortezze in due di loro per levare del tutto a questi l'impadronirsi di due gran porti capaci di molte navi. Quanto poi ai corsari francesi, che non lasciano di scorrere e molestar quanto possono quei mari, sì come l'isola della Madera assaltata e danneggiata da loro gli anni passati può esserne pur troppo buon testimonio, provvedono con un poco di armata il mese di agosto, mandandola a quest'isole per incontrare e accompagnar poi la flotta, che torna dall'India, sino a Lisbona. Il che non è difficile a farsi, poi ché il mancamento che hanno francesi per tutta la costa di Bretagna e di Normandia di porti capaci di gran navigli, fa ch'essi non possano opporsi o contrastare con quelli dei portoghesi, che per esser molto maggiori si trovano anco molto meglio armati dell'inimico. E dai mori (poiché tuttavia non mancano di corseggiare essi ancora fuori dello stretto e dentro il Mediterraneo) s'assicura col tenere quattro galere. E questo è quanto posso dire dei luoghi, che sono il Brasil e l'Azzore; dell'utile, che consiste nei dazi; della comodità per causa della navigazione all'isole dell'Azzore, e della sicurtà di tutta questa parte; la quale consiste nelle armate che accompagnano le flotte, e nella conservazione dell'Azzore.
Resta la quarta ed ultima parte di questo mondo chiamata Europa. In questa possiede il re quella poca porzione di Spagna, che gli antichi chiamarono Lusitania e che ora vien detta Portogallo. Da questa cava il re in tutto, computando le isole della Madera e le Terzere, 1,050,000 ducati in circa; i quali nondimeno bisogna misurare perché possano bastare alle spese del regno, del ministri, officiali e interessi (che son molti), della sua casa, di quella della regina sua ava e dei due infanti, e delle tre fortezze che tiene in Africa, si come dissi; aggiungendosi anco quello che cava dalla Mina, e tutto l'utile dei peveri e altre droghe che vengono dall'In dia. Ma se vorrà pagare il debito che contrasse già il re don Giovanni suo avo, che si dice essere di sei milioni d'oro, sarà il re povero per un gran pezzo.
Poca è la comodità che cava il re da questo regno per ché è piccolo e sterile, onde abbondando solo d'olio, di vino e di sali, manca di grano, di legna, di miniere, di cavalli e d'uomini, ch'è quello che importa, massime estendendosi con le navigazioni in tante parti e pertanto paese sì come ho detto. Onde come per debolezza dei mori, e per la lontananza dei turchi, può il re sperar di mantenere le fortezze che ora tiene in quelle parti dell'oriente, così per lo poco nu mero della gente non può sperare di popolar nessun paese, di penetrare niuna terra, soggiogare alcuna nazione, né in fine far alcuno di quegli effetti che si vedono fare dal re di Spagna; il quale con la propria nazione spagnola tiene in freno la Fiandra, gli stati d'Italia, le fortezze di Barberia, e il mondo nuovo.
Della sicurtà considero la intrinseca e la estrinseca. Per la intrinseca vedo i popoli tutti, e grandi e piccoli, affezionatissimi e devotissimi al loro re, onde pare che perciò non possa nascere alcuna gelosia. E benché vi sia la divisione di cristiani vecchi e cristiani nuovi, non può però dubi tarsi di alcun disconcio, perché i cristiani nuovi, quantunque avessero mala volontà, non possono esercitarla. Cristiani nuovi si dicono tutti coloro i quali discendono da padri ebrei. Questi furono in tempo del re don Emanuele fatti fare cristiani per forza, e da questi procedono principalmente quelli che chiamiamo noi in Italia marrani, dei quali ne son piene le città in queste parti; e quel ribaldo di Gio. Miches è di questa maledetta e adultera gente.
Quanto alla sicurtà per quelli di fuori, il sito rende assai sicura questa provincia; perché il mare Oceano serve per fossa ai francesi e agl'inglesi che volessero assaltarla, e il Mediterraneo serve al medesimo, oltra le tre fortezze di Tanger, Ceuta e Mazagan già dette, contra i mori di Fez. La vicinanza poi d'un re di Spagna, lontanissimo dal voler l'altrui, non solo l'assicura per quella parte, ma lo fa sicurissimo da qualunque altro inimico, non potendosi assaltare il Portogallo che non si faccia conto col serenissimo re Cattolico.
E questo è quanto m'è parso dover dire degli stati di questo serenissimo re, dell'utile che ne cava (il quale, computando quello che resta dell'India, può esser due milioni e mezzo di ducati in circa), delle comodità, che son poche, mancando d'uomini, di cavalli, e di grani; e finalmente ho detto della sicurtà loro. Resta ora ch'io venga al secondo capo, che è quello della volontà, nel quale considererò brevissimamente alcuna cosa degli uomini più principali del suo governo e delle qualità del re; e per terzo e ultimo dirò qualche cosa dell'animo ch'ei possa avere verso i principi suoi confinanti, e verso il sommo pontefice, e in fine verso la Serenità Vostra; ponderando finalmente con quale aiuto e in qual parte possa esercitare il suo animo e le sue forze a benefizio della cristianità in questa importantissima impresa.
Gli uomini adunque più principali del suo governo sono il cardinale e don Edoardo, l'uno zio e l'altro cugino del re. Gli altri sono don Fernando e don Martin Mascaregna, don Alvaro de Castro, e il segretario più intimo chiamato Martin Gonzales de Camera, che è fratello di Luis Gonzales già maestro e ora confessore del re. La regina ava, che fu sorella dell'imperator Carlo, governava altre volte, ma scaricandosi già qualche anno, ora, con gran suo dispiacere, non partecipa più di alcun consiglio. Altri ancora sono ammessi, ma non sono di molta importanza. Del cardinale posso dire ch'è vecchio ed è zio del re, però ha qualche autorità nel consiglio, ed è uomo di buona intenzione. Don Edoardo è di buonissima mente, ma non è di molta autorità. Gli altri tre sono buonissime persone, e pur due di loro con qualche pratica del mondo, essendo l'uno stato ambasciatore al Concilio e l'altro a Roma. In questi adunque ha il fondamento del governo del suo stato, e da questo solo consiglio risultano tutte le spedizioni; ma è vero che il parere del confessore, benché non voglia entrare in consiglio, importa molto, perché è amato e stimato dal re grandemente, onde s'è veduto spesse volte le cose alterarsi e farsi diversamente da quello che prima dal consiglio era stato deliberato [1].
Il re, il quale è chiamato Sebastiano dal giorno in cui nacque, ha compito in quel dì (20 gennaio 1572) gli anni diciotto della sua età. Nacque dopo la morte del padre, che fu Giovanni, il quale morì vivendo ancora il re Giovanni suo padre. La madre, ch'è viva ancora, è Giovanna sorella del re Cattolico, ora detta la principessa, perché fu moglie del principe. È picciolo di statura, ma di graziosa e allegra faccia. La complessione è buonissima, perché è collerica e sanguinea; però è vivacissimo, e pronto nelle sue cose e arditissimo. Affatica il corpo continuamente alla caccia, e questo è tutto il suo piacere; la qual caccia vuol che sia incontrando con la lancia a cavallo i cignali, i quali alcuna volta per la lor fierezza l'hanno posto in gran pericolo; però i suoi non lo vedono volentieri in tale esercizio. A tali esercizi poi conseguitano i pensieri dell'animo, perché è pieno di desiderio di guerra, né pensa ad altra cosa che a passar in Africa, e perciò mette gran cura nell'esercitare i suoi popoli all'armi, disponendoli in ordinanze, e obbligandoli a tenere cavalli e armi per questo effetto. Questo esercizio e questi pensieri sono poi accompagnati da una, non solo religione, ma divozione quasi incredibile in età tale, e in tale temperatura, la quale difficilmente suole accomodarsi a tanta quiete quanta ricerca tanta squisita divozione. È sollecitissimo agli uffizi divini, e sta in quelli con somma attenzione e devozione. Ogni giorno dice l'uffizio grande, non altrimenti che alcuno religioso, e si confessa e comunica spessissime volte l'anno, oltra le feste più principali, ed è nella sua vita casto tanto, che parendo inimico quasi alle donne, alcuni volevano sospettare lui esser poco atto pel matrimonio.
Questa tanta divozione, e tal vita, e questo tanto essere col confessore, sì come io dissi, non piace punto ad alcuno dei grandi del regno, parendo loro che il re troppo appoggi nel suo governo sopra uomo di questa sorte, trovandosi massimamente privi di quella autorità che solevano aver prima, e si dolgono che per consiglio, sì come essi dicono, di questi due, il confessore e il fratello, restasse impedito il matrimonio, già concluso per parola promessa al serenissimo re Cattolico, fra il re e la sorella del re Cristianissimo, che non è stato poi a tempo quando, a nuova istanza di Sua Santità, col mezzo del cardinale Alessandrino, dichiarò di contentarsene.
Quanto poi appartiene a quello che si possa credere del suo animo verso i principi confinanti e il papa e la Serenità Vostra, ben si può dire che, quantunque resti offeso e da francesi e da inglesi, che corseggiano il mare con suo gran danno, nondimeno da lui non sia mai per venire il romper la pace, perché in fatto non ha forza bastante; e il bisogno anco che ha continuamente del grano di Francia, senza il quale si morirebbe di fame il suo regno, lo farà sempre star quieto. Col re Cattolico poi ha tanta strettezza di parentado, ed è così disuguale la potenza, che vana cosa è a pensare che da lui venga mai il romper con quel serenissimo re, benché vivano ancora gli odi fra queste due nazioni, nati dalla pretensione di Giovanni primo re di Castiglia sul regno di Portogallo per la morte di Pietro re, morto nel 1367 senza figliuoli legittimi, al quale, di consenso dei grandi del regno, successe Giovanni figliuolo bastardo, pel quale in quei tempi furono molte guerre, dalle quali nacquero gli odi che vivono ancora. Col Seriffo, perché è pagano, e vicino potente in Africa, mantiene continua inimicizia, e coi turchi e mori nell'India è nel medesimo stato; onde è forza che stia in continua custodia per ogni parte, per dubbio di tutti questi. Col papa, perché è devotissimo, non si può dubitare che non stia benissimo, e ben ne dà segno lasciandosi governare dal confessore; ma il dare in chiesa il luogo superiore al cardinale Alessandrino è stato stimato dai suoi per gran cosa, perché in vero non sogliono i re far tanto onore ad un legato del papa.
Della Serenità Vostra poi mostra far molta stima, e in ogni cosa si mostrerà sempre amorevole a beneficio di lei. Vien ancora tenuta memoria di certa cortesia che fu fatta al re Alfonso II allora che, senza speranza di succeder nel regno, fu in questa città per suo piacere; e il re don Emanuele ne rese la ricompensa col benefizio fatto alle galeazze che capitarono maltrattate in Lisbona; onde per questo, che fu stimato allora molto, fu mandato, per rendergli grazie, ambasciatore il famosissimo ancora messer Jeronimo Donato. Vorrebbe quel re ancor più stringere questa amicizia, facendo qualche accordo per le sue drogherie; ed ha tanto il pensiero in questo, che il cardinale nel primo ragionamento me ne diede indizio chiaro, e gli uomini della corte affermavano questo esser appunto il negozio per il quale m'aveva mandato la Serenità Vostra. E tanto basti aver detto dell'inclinazione dell'animo di questo re verso i suoi confinanti, e verso il papa e la Serenità Vostra.
Quanto poi al pensiero, ch'esso re abbia per questa impresa contra il Turco, non può dubitarsi ch'egli non sia tutto zelo e tutto ardore; vorrebbe aiutare, e aiuterà senza alcun dubbio dove potrà, che sarà per la parte dell'India, perché vede poter più giovare a sé e ai confederati per quella via che per altra, vedendo poter più comodamente e con molto meno spesa mandar un buon numero di portoghesi in India, dove vanno di buona voglia, che pochi a congiungersi con l'armata dei collegati, dove non ha neanche che guadagnare nel proprio suo particolare, come hanno gli altri principi cristiani. E però, quantunque si trovi obbligato per l'anno futuro, nondimeno avrà carissimo liberarsi da tal obbligo per impiegar maggiori forze in quelle parti dell'India, sì come già scrissi alla Serenità Vostra che consigliava il confessore suo; perché in vero pochissimo potrà per questa via, ma molto, si come dissi, per l'altra, e più gioverà alla cristianità il suo aiuto per l'India, che l'unione di poca sua forza con le armate dei collegati. E questo è tutto quello ch'io ho giudicato convenirsi dire degli uomini del consiglio di questo re, della sua persona, dei suoi costumi e dei suoi pensieri verso i suoi vicini e verso la Serenità Vostra, e del modo ch'egli abbia per aiutare la cristianità, che è il fine della prima parte aspettante a questo re. Resta ch'io venga alla seconda aspettante al serenissimo re di Spagna.
Quanto adunque alle forze, già sanno le SS. VV. II. i gran stati e regni di questo gran re, il quale senza dubbio è il maggiore dei cristiani, possedendo i regni di Napoli e Sicilia, lo stato di Milano, la Fiandra, grandissimi paesi nel mondo nuovo, e la Spagna, dai quali cava grandissime utilità e natabilissime comodità. E quanto all'utilità, si trova ora il re Cattolico, computando tutti gli straordinari, i quali non dimeno saranno ordinari per quanto dureranno le gravezze che sono a tempo, la somma d'undici milioni d'oro di entrata. È vero che se si vorrà far conto di quello che può avanzare dalle spese della lega contro il Turco e dalla difesa delle cose proprie e offesa contro il re di Francia, si convien dire che sia S. M. così stretta quasi come qualsivoglia altro principe cristiano, perché quello che cava di Fiandra non solo è consumato in quella provincia, ma ha bisogno d'esser accresciuto e aiutato dall'altre parti; e il medesimo dico dello stato di Milano, il quale, benché sia gravato d'un milione d'oro, ha bisogno nondimeno dei danari di Spagna, tante sono le spese per ogni parte. E siane segno manifestissimo, poiché non si possono veder i conti, i grandi interessi che sopporta S. M. nelle provvisioni che fa di denari, lasciando stare la tardezza con che si provvede, che pur significa difficoltà; sebbene questa porti seco ancora un'altra cagione, la quale è una naturale lentezza e lunghezza ch'è in Sua Maestà in tutte le cose, per grandi ed importanti che siano. E per quanto sia verissimo importar poco meno d'un milione e mezzo d'oro le due grazie avute, per cagione della guerra, da Sua Santità, nondimeno si vede tuttavia continuare le medesime necessità e le stesse incomodità, che sono di tanti interessi che patisce Sua Maestà, e di tanti lamenti che fanno tutti i suoi soldati, i quali nello stato di Milano e di Napoli, ma più nei paesi di Fiandra, sono creditori di grossissima somma di paghe, onde avviene di necessità che non solo non si quietino quei popoli di Fiandra per le cose passate, ma che anzi si solle vino pur tuttavia, eccitati e trafitti continuamente dagli spagnoli, i quali convengono vivere secondo la loro discrezione. Si può adunque dire con verità, esser gravati tutti i paesi grossissimamente, e dalle borse dei particolari uscire ogni anno di ordinario la somma di nove milioni e mezzo d'oro, che aggiunti alle due grazie, che sono la crociata e l'escusado, fanno la somma in tutto degli undici milioni ch' io dissi; la quale nondimeno non basterebbe a far che il re potesse supplire alla lega per la offesa, quando per l'altra parte fossero dai francesi combattuti e travagliati i suoi luoghi. L'escusado è una grazia di Sua Santità con la quale può il re, levando alle chiese il decimale più ricco, tenerlo per sé; e questo afferma ognuno dover importare ogni anno poco meno d'un milione d' oro, tanto è grande la Spagna, e tanto ricche sono le chiese [2].
Quanto alle comodità poi, ben può dirsi esser molte e molto importanti, perché d' Italia ha soldati e cavalli per dar ne ad altri, di Spagna si vede quanti uomini cava ogni giorno, e per far galere non gli mancano legnami e né meno uomini per remarle, e dall'India può aver questa comodità di pigliare per sé in un sol colpo la somma di cinque milioni d'oro che ogni anno entrano in Spagna. La qual comodità, benché non si possa credere la M. S. essere per usarne se non in grandissima necessità, perché sarebbe un rovinare tutto quel corso, nondimeno è pur gran cosa trovarsi nelle necessità un modo così gagliardo onde ripararvi per quella volta. E tanto basti in quanto appartiene a questo capo della potenza. Ora è da vedere in qual modo a questa s'accompagni la volontà, perché senza questa poco valgono le forze. Ma perché il voler dei principi, quantunque nelle cose di stato abbia a dipender principalmente dall'utile, dal quale anco devono gli uomini far suo giudizio, alcuna volta nondimeno venendo alterato con forme alla prudenza di chi governa, è necessario dire alcuna cosa della qualità degli uomini del consiglio di S. M. e della sua persona, perché essendo ben conosciuti potrà meglio la Serenità Vostra giudicare e discorrere il voler di questo re intorno alla guerra presente.
Sette uomini principali adunque sono del consiglio di stato. Il cardinale Espinosa, il duca d'Alva, Ruy Gomez, don Antonio di Toledo, il duca di Medinaceli, il duca di Francavilla e il duca di Sessa; ma benché tanti, finalmente tutto il peso, per la riputazione che hanno, si risolve nel cardinale, nel duca d'Aiva e in Ruy Gomez, perché di questi fa il re più stima che di alcuno degl'altri. Onde parlando di questi, dico esser nel cardinale molta diligenza e molto pensiero alle cose del suo re; è uomo di gran fatica, e però il re sopra di lui scarica quasi tutti i negozi, confidando do ver aver da questa persona, non molto nobile, più sincera relazione e più sincero parere che dagl'altri due, già molti anni conosciuti da S. M. per emuli e poco amici l'uno dell'altro; onde è persuaso spesse volte esser essi contrari nelle opinioni più per l'affetto che per sincerità di parere.
Il duca d'Alva è vecchio già di 70 anni tutti dispensati al governo di stato e alle guerre con notabilissimi carichi; è di bonissimo ingegno ed è eloquentissimo, discorrendo con gran gravità delle cose importanti; è di natura riservata e molto cauta, onde vuole abbondare nelle sue imprese di tutte le provvisioni, in maniera che, a giudizio universale, vuole anco molto più di quello che sia il bisogno; onde è causa di far consumare al suo re grandissima somma d'oro, che forse altri non ne consumerebbe tanta. È più atto al conservare che all'acquistare, e pare anco che la fortuna gli sia stata più favorevole in quello che in questo, perché chi considera l'azioni sue vede egli aver nulla acquistato, benché lo tasse, ma molto conservato; e segno sia di questo ch' io dico la lettera ch'egli scrisse nel principio di questa guerra alla Serenità Vostra, nella quale ricordava che tante fossero le provvisioni per assicurare i luoghi assaltati come se non avessero ad essere soccorsi, poi attendere al soccorso come se non fossero stati presidiati; ricordo ben sicuro ma assai difficile da metter in atto, perché spesse volte non si può far l'uno e l'altro compiutamente. Di questo soggetto si fida grandissimamente il re, e si vede che la ricuperazione di Fiandra già tutta sollevata, e la conservazione di quella, è tutta appoggiata sopra le spalle di quest'uomo. Onde ben si può credere che il consiglio di lui in questi moti francesi, anzi pur nel principio delle sole sospizioni, molto valesse col re, sen dogli rappresentate le cose forse anco più gagliarde e di maggior pericolo che non erano in fatto.
Ruy Gomez, di nazione portoghese, allevato sin dai primi anni con il re, seppe in quel tempo così bene introdursi nella conversazione di S. M. che non era alcuno più intimo né più intendente delle cose più secrete, o piacevoli o gravi che esse si fossero, di quest'uomo, e procedendo sempre più innanzi, più sempre si è andato stabilendo e confermando in grazia. Ottiene ciò che vuole, e non domanda; ma essendo all'orecchio del re, parla in maniera delle cose, che il re da sè cade in opinione di quello di che egli avrebbe voluto pregarlo. E così il re sta contentissimo, parendogli non aver uomo che lo molesti ogni giorno quando per questa quando per quell'altra cosa. È il primo ad onorare e riverire quell'uomo che il re toglie a far grande; e ben si vide nel cardinale Espinosa, il quale, i primi giorni che fu levato dal giudicar cause private come semplice dottor del consiglio reale, e datogli il grado di presidente, da Ruy Gomez, primo di tutti i grandi, ricevette quegli onori ed ossequi che possono esser desiderati dal maggiore nel suo minore. Nei suoi ragionamenti non- si vanta mai della grazia ch'egli abbia col re. Dai luoghi pubblici sta lontano più che tutti gli altri, né si vede ch'egli cerchi di lasciarsi veder al volgo per godere nella prece di quello che sogliono goder volentieri gli uomini vani. Con queste vie s'è acquistata e mantenuta la grazia del re tanti anni; la quale in fine, parte per doni, parte per grazie del medesimo re, e parte per altra via, (indirizzandosi a lui tutti i principi d'Italia e d'ogni altro luogo), gli ha partorita una ricchezza di 80,000 scudi d'entrata nel termine di poco più di venti anni, con un'aggiunta di tanti contanti che è opinione universale che ogni anno, per via dei cambi, guadagni grandissima somma di oro. Questi adunque sono i soggetti più principali col parere dei quali si governa S. M., per ché tutti gli altri, eccetto il duca di Sessa, dividendosi, s'accostano e dipendono o da questo o da quello. Ma questo duca, per esser troppo libero, e per esser profusissimo nello spendere e nel donare, non fu mai preso in considerazione dal re, e solamente dopo la guerra di Granata, per onorarlo, gli ha dato luogo nel consiglio di stato.
Considerando adunque questo consiglio, e la natura, le inclinazioni e la pratica di questi uomini, pare che si possa concludere quest'universale, che il consiglio sempre pieghi a quelle cose le quali dimostrino maggior sicurezza, benché fossero meno onorevoli; perché il cardinale, per la poca pratica, convien desiderar la quiete per non far prova in cose impor tantissime di sè stesso; il duca d'Alva è già vecchio e glorioso tanto che non può desiderar altre imprese, aggiungendosi a questo la sua natura, che è di stare su la difesa; e Ruy Gomez poi, arricchito e ingrandito nella pace, non può desiderar quello che gli possa ritardare la sua ricchezza, la quale in tempo di pace può accrescer maggiormente. E si può aggiungere alle cause di questi due, il cardinale e Ruy Gomez, quest'altra ancora, che l'uno e l'altro di questi dipendono principalmente dal compiacimento del loro re.
Il quale, acciocché oramai si venga alla sua persona, s'è visto sin dai primi suoi anni inclinare alla pace, esser inimico di guerra, non desiderare maggior stato di quello che s'abbia, e come in questo è caldissimo ed ardentissimo, così in mezzo a tante prosperità, Ruy Gomez venne a morte in questo in quest'altro dell'acquistare esser tepido e forse pieno di ghiaccio. Segno ne sia la prima guerra ch' egli ebbe con Paolo IV, da che si accese quella di Francia; nell'una e nell'altra delle quali dimostrò chiaramente quanto a lui bastasse conservar le cose, contenendo, quanto alla prima, negli steccati il duca d'Alva già posto d'intorno Roma, e prestando poi, quanto alla seconda, le orecchie alla pace con Francia; la qual concluse bene con grande avvantaggio, ma lasciando del tutto le speranze che avesse potuto avere seguitando la vittoria dopo la rotta d'un grossissimo esercito francese con la presa del gran contestabile e dei principalissimi ministri e capitani di quel regno. Considerisi poi l'occasione che gli avrebbero offerto le sollevazioni civili della medesima Francia, e vedasi se l'imperator Carlo suo padre le avesse lasciate sfuggire. Dalle quali cose tutte si può cavare quanto sia S. M. lontana dalla cupidità di quel d'altri. Altre cose ancora si vedono in questo re, le quali sono gran compagne e ministre di tali pensieri, quali sono una risoluzione tardissima in tutte le cose e una tenacità estrema nello spender il denaro; nel che vuole esser si misurato, che spesse volte la troppo stretta misura induce le cose a termini pericolosissimi, onde poi spende con maggior disordine senza bisogno. Per tal tardità e per simile tenacità si perse quasi Malta (nel 1565), di tanta conseguenza agli stati suoi del regno di Napoli e di Sicilia, e della Go letta in Barberia, anzi di tutta Spagna, che fu stimato miracolo l'arrivare il soccorso a tempo. Per le medesime cause si ridusse la Fiandra a tanto estremo, che solo dopo sollevata e depredate molte città, e consumati molti popoli, comparve il duca d'Alva, quando con ragione era creduto che il principe d'Oranges e il conte d'Egmont, con gli altri più principali, dovessero opporsi per non lasciarlo entrare armato; onde fu reputato più gran ventura del re che prudenza, e più semplicità e stolidità di quegli uomini che accortezza del duca, il rimedio e la ricuperazione di quei paesi.
Né è meraviglia, serenissimo principe, che questo ne proceda in tal modo, poiché la complessione, cosa di tanto momento per principio di tutte le azioni degli uomini, essendo flemmatica, grandissimamente così lo inclina. E se nella giovane età fu sempre così, par ben ragionevole che in questa, forse più che mezzana, essendo in 45 anni forniti questo mese di maggio passato, sia anco molto più cauto e meno desideroso di travagliare. Ma aggiungendosi poi a tal natura e a tal abito un consiglio, quale ho descritto, d'uomini tutti tendenti, e per loro interessi e per loro parere, a confermare il re in questo, si potrà comprendere molto meglio quello che si possa giudicare nelle occasioni presenti.
Voglio ben confessare ingenuamente alla Serenità Vostra che, tutto che io abbia sempre stimato questa Maestà con correre mal volentieri a tanta spesa e a tanto rischio in questa guerra turchesca, non mi era mai potuto cadere nel l'animo che, conoscendo essa quanto poco possa questo Serenissimo Dominio, e tutta la lega insieme, contra il Turco con la sola difesa (nella quale i principi collegati vengono ad annichilarsi, e il nemico vie più a ingagliardirsi), Sua Maestà si risolvesse, dopo una tanta vittoria, e dopo essersi conclusa in Roma l'unione delle forze, di commettere al sig. don Giovanni suo fratello il contrario [3] con pericolo di estremo disordine a questo Dominio, e di danno notabile a sé e a tutta la cristianità. Confesso dico, ingenuamente non aver potuto io creder tanto, per questa cagione del danno di che S. M. medesima viene con ciò ad essere ministra, e ne sto addoloratissimo e meravigliatissimo. Vado bene considerando che la gran necessità del denaro, il gran moto di Fiandra (la quale è in necessità di grossissima guardia, sì per gli stessi popoli, che son già disperati delle estorsioni de spagnoli che vivono a discrezione, e sì per gli assalti francesi), e forse anco il non aver creduto l'armata turchesca così gagliarda quanto si sente al presente, onde poteva forse credersi in quel tempo che non avesse ardire di uscire dallo stretto, siano sta te sole cagioni di un tale accidente. Ma il non parlarne al l'ambasciatore nostro in Spagna, il non esserne fatto ufficio “dal suo con la Serenità Vostra, e l'essersi mostrato l'ordine dal suo ambasciatore in Roma a viva forza, tutto ciò mi mette in dubbio di radice ancora più cattiva, che non è quella del l'impotenza; quantunque anco considerando lo aver voluto il re, per ordine suo di Spagna sin dal principio delle consulte in Roma, che il consiglio cadesse non sopra l'andare o il non andare all'impresa d'Algeri (cosa nondimeno tanto desiderata e bramata da S. M. e da tutta la Spagna), ma sopra l'impresa che s'avesse a fare in Levante, mi tiene sospeso l'animo grandemente, perché una tale risoluzione in quel tempo mostrò pur chiara la candidezza dell'animo suo. Onde non saprei a che assegnar la causa d'un tanto accidente.
Ma poiché son stato astretto, in luogo di pronosticare quello che poteva sperar la Serenità Vostra dalla congiunzione di questo serenissimo re, a discorrere sopra le cause di un tal mancamento fuori forse di quello che conveniva a chi è in questo luogo per far relazione, sì come sono io, e non per far risolvere alla Serenità Vostra alcuna proposta materia; la sua benignità sarà tanta che mi avrà per scuso, considerando quanto io sia stato necessitato a questo, ed anco se in così fatto accidente, benché pratico di quella corte per esservi stato quasi tre anni continui, non so ricordare il rimedio; perché in vero, sia fraude o impotenza, non potrei dir altro se non che alla prima non vi fosse altro rimedio che non appoggiarsi a quelle speranze, e alla seconda solo rimedio che francesi stessero in pace. Conveniente rimedio è nondimeno quello che fa la Serenità Vostra, tenendo spesso avvisato l'ambasciatore delle trattazioni in Roma e dei preparamenti che si fanno da lei, acciocché ben avvisato e bene inanimato a star oculato a quello ch'egli potesse scopri re per far gli uffici che convenissero, potessero questi esser fatti e più a tempo e con maggior fondamento; dovendo ser certa la Serenità Vostra che gli avvertimenti e gli avvisi agli ambasciatori sono gran lume onde essi possano far gli uffici che bisognano, e scoprir con più fermezza i pensieri e le trattazioni che sono fatte di tempo in tempo. So che il clariss. Donato, che è molto prudente e molto intendente, e per tale anco stimato dal re, è diligentissimo e avvedutissimo” a quel bisogno; e avendolo io praticato quel mese in Spagna, dove la Serenità Vostra è servita con molta soddisfa zione di S. M. e di tutta la corte, ho visto che prevede e provvede con tutti gli uffizi accorti e prudenti che possono esser desiderati, anco senza aver avuto ordine di qua, poiché la gran lontananza non comporta che si possa in ogni accidente aspettare avviso; e le sue lettere mi rendono in tutto questo appresso la Serenità Vostra veridico testimonio.
Restami ora a dire del signor don Giovanni d'Austria esecutore di tanta impresa; senza il quale non può dubitar si, qualunque spesa della Serenità Vostra, qualunque consiglio dover esser gettato a grandissimo malefizio di questo serenissimo Dominio, non valendo né buono né unito volere dei collegati se nell'esecutore non corrispondesse il giudizio e la volontà, e più ancora l'autorità, senza la quale nulla varrebbero in lui le altre condizioni benché ottime; perché l'ubbidienza dei capitani e il rispetto che devono a tal personaggio può solo rendere eseguiti gli ordini dei collegati, e il consiglio dei tre principali in armata.
Di questo personaggio adunque potrei dir molto, quando non fosse questo signore astretto ai comandamenti del re; per ché in vero non si poteva dalla Serenità Vostra desiderare né più ardente né più compiuta volontà in esecutore di tanta impresa a benefizio di tutta la cristianità di quella che sia in questo giovane generoso; perché la età, che è di 27 anni in circa, la complessione, che è collerica e sanguinea, lo rendo no vivace, ardito e desideroso di gloria, avendo anco tanto ingegno da conoscer benissimo che con l'occasione della lega può migliorare la sua condizione, la quale altrimenti è solo di cavaliere poco più che privato. Non può sperare in Spagna, né in alcun'altro luogo, stato corrispondente al sangue di dove viene, essendo figliuolo dell'imperator Carlo V; però è necessitato a sentire con grandissima pena questa risoluzione del serenissimo re suo fratello. Considerisi a confermazione di questo l'opera fatta l'anno passato, la quale è seguita solo per l'industria e valore de' nostri e per risoluzione di solo questo giovane, il quale, per quel che s'intende da tutte le parti, volle pur andare innanzi contra il parere quasi di tutti del suo consiglio. Ne è meraviglia che fosse così, poiché in Spagna medesima, dopo la nuova della vittoria, la quale giunse alla corte pochi di innanzi ch'io vi arrivassi, fu chi aperta mente affermava esser stato un gran rischio, e che in fatto fu risoluzione da giovane; e l'istesso Ruy Gomez, ragionando col clariss. ambasciatore Donato, affermava che bisognava mandar appresso a questo soggetto persone che non fossero né anco così tutto arme; il che mi ricordo che scrivessimo alla Serenità Vostra in quel tempo; e si vide poi amco esserne seguito l'effetto per la elezione del duca di Sessa per suo luogotenente, e del sig. Antonio Doria e marchese di Tre vico per consiglieri; uomini, che per l'età e per l'esperienza ben basterebbero a temperare, ma non già a raffreddare del tutto quelle azioni che la ragione avesse persuaso doversi fare con ardire e con risoluta prestezza, se il re, con questa ina aspettatissima nuova, non avesse chiarito il mondo che vuol non solo temperare, ma assicurarsi del tutto le sue galere. Quanto adunque all'animo di questo giovane, non si può desiderar di più per l'esperienza fatta, e per quello ancora che ha dimostrato in Messina in fatti ed in parole, siccome so che le SS. VV. II. di lui restano soddisfattissime.
Avevo pensato di dire alcuna cosa intorno all'intertenersi dei ministri della Serenità Vostra con questo signore e con i suoi ministri, onde nascesse sempre più ardore e amore a benefizio di questa santa impresa; ma so che ogni mio ragionamento in questo proposito sarebbe riputato tedioso e vano; però mi risolvo a tacere e far fine al mio uffizio, pregando l'onnipotente Dio, che volgendo gli occhi suoi verso questa sua cristianissima Repubblica gli piaccia averla nella sua guardia, dimostrandole quella parte, nei consigli e nelle delibera zioni ch'ella abbia a prendere, che sia né del tutto con troppa confidenza né con troppa bassezza, acciocché servando, in cosa tanto importante e tanto pericolosa, quel temperamento che con viene alla somma prudenza di Vostra Serenità e delle SS.VV. IL., non solo sia stimato questo serenissimo Dominio per magnanimo e forte, come è conveniente che si dimostri nei casi più gravi e più pericolosi, ma sia anche conosciuto di tale temperamento che, non eccedendo nel troppo in alcuna delle par ti, non tolga a sé medesimo quelle occasioni che gli venisse ro innanzi a maggior vantaggio e benefizio suo. E questo è tutto quello ch'io ho giudicato bene doversi dire da me in questo luogo e in questo proposito dei serenissimi re di Portogallo e di Spagna e del sig. don Giovanni d'Austria [4].
Scusimi la Serenità Vostra se io fossi stato in questa narrazione più lungo che essa per avventura non s'aspettava, poiché il desiderio ch'io aveva di non mancare nelle cose importanti e il voler parlare con distinzione, affine che quanto fosse inteso, tanto anche fosse più facilmente conservato nella memoria, ha causato un poco maggior lunghezza; e in luogo di perdono siano contente, con la loro molta benignità, concedermi nuova grazia, ascoltando volentieri pochissime parole ch'io desidero dire del mio segretario, che è stato messer Valerio Anselmi, e di me.
Di messer Valerio adunque posso dire in poche parole molte cose, perché ho trovato in lui tutta quella riverenza, obbedienza e osservanza, che dee essere in ciascun buono e discreto segretario verso l'ambasciatore, né io ho potuto desiderar più. Che quanto ciò importi alla quiete dell'ambasciatore lo giudichino quei clarissimi che si sono incontrati nel suo rovescio. Quanto poi a quello ch'io gli ho comandato di tempo in tempo in servizio della Serenità Vostra, tanto è stato diligente, tanto paziente e tanto intendente, quanto similmente io ho potuto desiderare; e può ella ben esser certa che il mio desiderio in questo sia stato e sia per esser sempre ine stimabile. Dio mi sia testimonio come io parlo con verità, onde è ben degno della grazia della Serenità Vostra e di ciascuna delle Signorie Vostre Illustrissime.
Di me poi posso dire che ho a rendere infinite grazie al Signore Dio, il quale in tanta lunghezza di viaggio, essendo oggimai l'anno ch'io peregrino, in tanta diversità di paesi, in tanta varietà di stagioni e di tempi, in tanta mutazione di cielo, non altro quasi facendo che cavalcare, s'abbia Sua Divina Bontà degnato conservarmi sempre la sanità fuor che quel poco ch'io mi risenti a Milano, per esser ancor troppo fresco nella fatica; che certo è stata singolarissima grazia, avendo convenuto patir l'ardore dei maggior caldi e il ghiaccio dei maggiori freddi; ed è pur vero che in un medesimo giorno, cavalcando la Spagna, ho patito grandissimo freddo ed eccessivo calore, tanto che in un medesimo giorno ho convenuto spogliarmi e vestirmi più d'una volta. Ho cavalcato paese dove, per la sua siccità, languivano gli uomini e i cavalli privi pur d'una gocciola d'acqua, e dove ho avuto poi ad affogare nei fanghi e nelle acque, onde è ben stata sola infinita benignità di Dio che in tante mutazioni e così frequenti io mi sia conservato così sano come mai fui. Sia lodata per sempre la sua bontà.
Resta finalmente ch'io renda anche infinite grazie alla Serenità Vostra e alle SS. VV. II. che ricordandosi di me si siano contentate di comandarmi, perché qual maggior grazia può ricevere un cittadino che l'esser adoperato dalla sua patria? Onde ben debbo con ogni affetto del cuor mio tornar a ringraziarla, affermandole che qualunque travaglio patito, qualunque fatica presa, e qualunque pericolo corso mi sia stato doppiamente pagato, sempre ch'io pensava alla sua molta benignità; perciocché questa nel caldo e nel freddo mi ristora va, e nella spesa m'arricchiva, e finalmente a tutti i mali ella mi è stato rimedio salutifero e soavissimo. Conosco non poter corrispondere a tante grazie, perché e la roba e la vita, senza ch'io l'offra, si trova esser della Serenità Vostra innanzi ch'io nascessi, come l'anima è del suo creatore; però non potendo né sapendo che altro fare, farò quello che siamo soliti noi uomini col Signore Dio, domandando e supplicando dopo molte grazie ancora alcun'altra. Così io, dopo tante che l'è piaciuto concedermi, tornerò nuovamente a supplicarla, che degnandosi aver in considerazione le molte spese patite per la lunghezza di tanto viaggio tutto quasi dispensa to sopra le osterie, con che ho convenuto far di quelle provvisioni che la necessità mi sforzava, ella sia contenta farmi grazia di quella catena e di quella spada donatemi al parti re dai serenissimi re di Spagna e di Portogallo, acciocché con l'una slegandomi di qualche mio particolar creditore, io resti nondimeno legato alla liberalità e pietà di questo Illustrissimo Consiglio, e con l'altra io onori la mia camera in segno di aver servito questo Serenissimo Dominio in parte dove era poco meno di cent'anni che la Serenità Vostra non aveva avuto ambasciatore.
[1] L'autorità di don Luigi de Camera era già onnipotente a quest'epoca sul giovine Sebastiano ed a lui imputano i Portoghesi non solo la manomissione della cosa pubblica, ma la morte stessa del re, da lui cresciuto nella folle idea di soggiogare i mussulmani d'Africa, che lo condusse nel 1578 alla fatale spedizione in cui perdette la vita, e il regno cadde sotto la dominazione degli Spagnoli. La nonna di Sebastiano, Caterina d'Austria, sorella di Carlo V, che in vano faceva opera di trattenerlo da quella impresa, era già mancata di vita l'anno innanzi.
[2] Questo modo fu però trovato in pratica inammissibile, perché in alcuni luoghi, levato il decimale più ricco, non restava nulla alla chiesa, mentre in altri era sì poca cosa che il re non ne risentiva vantaggio alcuno, onde fu convenuto in una somma fissa, da ripartirsi dal clero a piacer suo, la quale ammontò in fatto ad una cifra molto minore della presunta in questo luogo dall' ambasciatore.
[3] Cioè di non concorrere altrimenti alle nuove imprese che si disegnavano in quest'anno contro i Turchi. Che se poi consentì di mandare alcune poche gale re, ciò fu più per pudore che per altro, e senza alcun effetto di conseguenza. Tan to che, nel marzo dell'anno appresso, la Repubblica, avvisando ai casi suoi fece addirittura la pace colla Porta, per tutte quelle buone ragioni che Tommaso Morosini venne esponendo al Senato in quella maschia orazione, che il clariss. Romanin riproduce a pag. 333 e segg. del tomo VI della sua storia.
[4] Della regina e della principessa Giovanna, e loro corte, delle quali il Tiepolo non fa parola, cosi discorre il cortigiano: « La regina è di età di anni diciannove o venti, di modestissima presenza, di pelo biondo e carnagione bianchissima, e di minute fattezze; è di statura poco gran de, di onestissimi costumi e di vita molto esemplare, ed è amata grandemente dal re suo marito. Vestiva di velluto nero, quando la vidi, schietto con molta politezza. Aveva il conciero della testa assai garbato, con preziosissime gemme, e al collo in guisa di catena aveva una fascia di gioie di valore inestimabile. Stavano alla presenza della regina sei damigelle, di nobilissimo sangue, tre delle quali la servivano in tavola con molta politezza, e le altre appoggiate agli arazzi intorno alla stanza si trattenevano con i loro innamorati o galanti, che così li chiamano, con piacevoli ragionamenti. Hanno questi galanti libertà di coprirsi innanzi al re e alla regina, purché stiano parlando con la donzella che servono. Sono costoro principi o signori di molta ricchezza e nobiltà, e servono dame per passar il tempo allegramente, e con animo ancora di prenderle per moglie, che altro non bisogna sperare, essendo strettissime in altra materia le cose del palazzo di S. M. Molti paggi sono al servizio della regina, di stirpe onoratissima, come figliuoli di duchi, di marchesi, e d'al tri principi, e si chiamano paggi d'onore, e sono obbligati, ad istanza d'ogni galante, portar ambasciate e risposte alle loro innamorate. Molti possono servire una sola dama, ma non può se non uno alla volta trattenersi ragionando con lei. « La principessa Giovanna è di età d'anni 36 in circa, di bellissime maniere, di faccia delicata, di pelo bruno e di carnagione bianchissima, di vita e di statura grande. È proporzionata molto, e in ogni sua azione grandissima d'ingegno e di prudenza. Mi pare che somigli di grazia e di gentilezza a don Giovanni suo fratello. Vive molto ritirata dai piaceri del mondo in appartamento vicino a quello della regina, con corte onoratissima, con alcune matrone di età, sci donzelle di nobili sangue, e con alcune giovanette chiamate menine, alle quali, quando sono in età di anni sedici, si danno i zapini, chiamati da noi zoccoli, e son fatte dame, si come ai paggi d'onore, che tiene essa e la regina, si dà la spada alla medesima età, e son fatti cavalieri.
TEXTOS CONSULTADOS
Julieta Teixeira Marques de Oliveira, Fontes documentais de Veneza referentes a Portugal, INCM, Lisboa, 1997
Julieta Teixeira Marques de Oliveira, Veneza e Portugal no século XVI: subsídios para a sua história, INCM, Lisboa, 2000
Le Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, Série 2, Tomo IV, Firenze, 1857
Online: Archive e Google Books
Le Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, Série 1, Tomo V, Firenze, 1861
Online: Archive e Google Books
M. Gachard, Relations des ambassadeurs vénitiens sur Charles-Quint et Philippe II,
Bruxelles, Gand, Leipzig, 1856.
Online: Gallica